L'intervista

M-Il figlio del secolo, Pigi Battista: "Delude gli antifascisti e Mussolini è magnetico"

Luca Beatrice

Promosso senza indugi. Anzi, l’appello è questo, voi di destra o di sinistra guardatevi questo meraviglioso esempio di cinema per la tv. Pierluigi Battista ha molto apprezzato le prime due puntate di M. e vi posso assicurare che le successive non sono da meno e comunque mi diffida dallo spoilerare alcunché. Ne abbiamo parlato partendo da un’opinione comune: persino meglio del libro, nello specifico il primo, pressoché bypassato e superato da otto ore di film visionario e potente.
«Parafrasando Gertrude Stein, “un film è un film è un film”, diretto da Joe Wright, uno dei migliori registi di oggi, autore de L’ora più buia ed Espiazione tratto dal romanzo di Ian McEwan. Parlarne come un documentario sarebbe assurdo, e rimando proprio al primo film citato, Churchill nel momento più difficile della sua storia politica quando stava per cambiare la linea non interventista, scende nella metropolitana di Londra per tastare il polso alla gente. Questa cosa probabilmente non è mai accaduta ma è assolutamente funzionale al racconto. Ecco, M. è un’opera d’arte, non un manifesto politico antifascista scritto per una trasmissione di Serena Bortone. Persino del romanzo di Scurati è sbagliata la lettura che si è diffusa da un certo punto, il volerne fare una bandiera, un allarme «ecco stanno tornando». La produzione ha scelto un regista internazionale apposta per non scivolare nel solito vizio, non uno dell’Arci, espressione dei centri sociali, di quel cinema italiano triste alla ricerca necessaria di qualcosa per cui indignarsi».

Parliamo di cinema, infatti. Stupende le scenografie, la fotografia, il ritmo indiavolato della colonna sonora. Milano descritta come una bolgia, una città sporca e lurida che sembra la Londra di Dickens.
«M. è un film che parte da fatti storici e antropologici, racconta e non spiega. Una Milano delle case di ringhiera, senti l’odore dei cavoli cucinati, povera, miserabile, dove tutto è scuro come in miniera. E in quell’ambiente ti domandi come ha fatto un improbabile uomo di provincia, preso in giro nei salotti, dirozzato da Margherita Sarfatti, come ha fatto in pochi anni a diventare il padrone d’Italia».

 

 

 

Mi affascina in particolare l’estetica della violenza, le sequenze dei pestaggi ricordano Alex e i Drughi di “Arancia Meccanica”, il film di Stanley Kubrick.
«Guarda, un minimo di riserva ce l’ho solo nella concessione allo splatter che mi rimanda invece al cinema di Tarantino. Però il ritmo è davvero furibondo, interessantissime le facce dei personaggi secondari di cui si individua subito il carattere, i miserabili, i pezzenti che diventano picchiatori, oppure quel Cesarino Rossi».

Neppure il registro del grottesco, peraltro, inficia il risultato.
«Sì, qualche volta Marinelli ricorda il Catenacci di Bracardi, però ci sono passaggi molto interessanti, ad esempio la soggezione, il complesso di inferiorità di M. nei confronti di D’Annunzio, colto, di successo, grande amatore, un mito che avrebbe potuto diventare lui il Duce e da cui M. prende a prestito persino dei modi di dire: Eia Eia Alalà è un grido di Fiume, non del fascismo».

M. è avanguardia pura, il nuovo che spazza la vecchia politica, infiamma gli animi nel contesto incendiario del dopoguerra.
«Lo specifico filmico, come direbbero gli intellettuali di sinistra, sta nell’immagine dell’establishment vecchio, che l’esperienza della guerra ha scaraventato nel passato, è vecchio Giolitti, il re- strano che nessuno abbia parlato di body-shaming, visto che è praticamente un nano- persino i socialisti sono uomini d’altri tempi, dell’800; al contrario l’elemento di giovanilismo teppistico, le bettole, il manganello, segnalano l’onnipresenza della violenza, legata conseguenza della I Guerra, quando morire era normale».

Ma allora perché così tante critiche da destra? Forse preconcette rispetto al personaggio Scurati (non certo al primo romanzo) o alla sofferenza del povero Marinelli, lui così antifascista...
«Pensa se questo problema ce lo avesse avuto Bruno Ganz quando faceva Hitler o l’ironico Massimo Popolizio alle prese anche lui con il Duce. Sai, in molti hanno pensato che la serie M. fosse un proclama alla Saviano sulla nascita di un nuovo fascismo e sull’attualità del messaggio politico. Ecco, le solite trincee difensive, oddio ci mettono in trappola, di nuovo al muro. Ma basta, gioca la partita, smettila con questo atteggiamento rancoroso, risentito, minoritario, per cui ogni 7 gennaio si commenta la commemorazione di Acca Larentia, ogni 25 aprile si fa la conta di chi c’è e chi non c’è, ogni 2 agosto si riparla di chi ha messo la bomba. M. è un film, ripeto non un manifesto politico, che racconta la vitalità animalesca contro l’establishment cadaverico, in quel lasso temporale del fascismo che Renzo De Felice distingueva tra movimento e regime».

 

 

 

Alla fine M. è un monumento a Mussolini, quasi simpatizzi per lui, ti entra dentro come al povero Marinelli, ti mette all’angolo con la sua potenza espressiva.
«Simpatizzi non la è parola giusta, diciamo che è una storia magnetica, su un personaggio mai banale, non è l’incarnazione del male ma di come abbia fatto a conquistare l’Italia quando ormai sembra perduto, spregiudicato, tutto e il contrario di tutto. Bisogna uscire dalla dicotomia fascismo/antifascismo, che non è proprio lo specifico del film».

M. è maschera e noi siamo popolo di commedia, non di tragedia. Pensa alla voracità sessuale di M., che amava molto farsi fotografare a torso nudo come Picasso, simbolo del Partito Comunista. Persone che comandano e fottono.
«Esattamente così, ecco perché il parametro non può essere ideologico, l’errore della sinistra e della destra sta nel volere attualizzare quella storia. Piuttosto allora perché sull’odierna persecuzione degli ebrei in tutto il mondo non dicono neanche una parola? Lì l’antifa tace, preoccupato del ritorno del fascismo e non di ciò che gli accade attorno».

Alla fine il problema infatti riguarda l’attualità politica.
«Quando uscì il primo romanzo non c’era il governo Meloni, dunque non fece particolare rumore, lo stesso Scurati non parlò di attualità, al limite se la prese con la retorica dell’antipolitica del grillismo. Lo scalpore nasce quando va al governo la destra, già con Berlusconi era scattato l’allarme, “tutti insieme contro il pericolo fascista”. Ti ricordi il 25 aprile prima del 1994, era una manifestazione stanca, finita, e invece proprio in quell’anno, a Milano, sotto il diluvio, tutti i leader, c’era anche Umberto Bossi. Di colpo rivitalizzata quando sembrava dimenticata».

Soprattutto una storia italiana.
«Dopo la caduta del fascismo tutti dovevano farsi perdonare qualcosa, eppure l’icona del Duce ha sempre mantenuto la sua forza, pensa ai giornali popolari dall’immediato dopoguerra in poi, ai rotocalchi pieni delle storie della famiglia, il misterioso carteggio, l’oro di Dongo, un fenomeno italiano compreso piazzale Loreto, venerato e scempiato. Con M. non diventi più antifascista e neppure più fascista, rimani com’eri prima ma certo affascinato, magnetizzato, da questo smandrappato che dalla casa con il cesso in comune partì per guidare l’Italia».