L'intervista
Umberto Smaila inchioda la sinistra: "Ecco perché ho certe simpatie politiche"
Umberto Smaila da Verona al mondo intero o quasi. A 74 anni e mezzo il musicista, conduttore e comico, divenuto famoso per il grande pubblico negli anni 80 con Colpo Grosso, è un vero globetrotter dell’intrattenimento. Così in meno di due settimane si è fatto vedere a Cortina, nello scorso weekend, per celebrare i 50 anni di carriera «che in realtà sarebbero 53 ma facciamo cifra tonda».
Ride di gusto raccontandoci con simpatia, da affezionato lettore di Libero come si definisce, il suo tour che prosegue tra note, canzoni, balli e tavoli imbanditi. Sempre negli ultimi giorni, infatti, l’abbiamo visto in polpetteria da Abatantuono a Milano «come da tradizione prima di ogni Natale» coi protagonisti della commedia italiana dove si sono anche riuniti amabilmente i Gatti di Vicolo Miracoli, Jerry Calà, Franco Oppini e Ninni Salerno, gli amici di sempre di Smaila. E la notte di Capodanno terrà un grande concerto in Egitto a Sharm el Sheik.
Umberto, lei ha costruito la sua carriera su un tridente: comicità, musica e politicamente scorretto. In mezzo secolo di carriera quante volte ha dovuto cambiare, modificare, aggiustare le punte della lancia?
« Era un periodo in cui c’era molta più libertà di adesso. Quello che oggi è considerato politicamente scorretto, allora era correttissimo. Colpo Grosso dopo quattro annidi trasmissioni è andato in replica per i successivi venti tanto fu amato. Era una macchina perfetta. Registravamo anche 4/5 puntate. Alla fine ero stanchissimo. Andava in onda tutti i giorni su Italia 7 alle undici di sera e poi lo rimandavano alle 1,30. Anche il fatto di mettere in bella mostra gli attributi femminili veniva guardato con curiosità. Le femministe c’erano già ma erano meno barricadere».
Intende dire che allora si sentivano meno di oggi le lamentele sul patriarcato?
«Quando sento queste cose mi viene un mal di stomaco tremendo. Secondo me, specie in Italia, il rapporto uomo-donna è rimasto sempre lo stesso, inalterato, dall’età della pietra. Spero di non far incazzare nessuno ma non siamo un paese islamico. C’è una bella differenza. Da noi le donne, le mamme, in casa hanno sempre avuto l’ultima parola. Hanno sempre preso più decisioni dei papà che erano impegnati a lavorare fuori per portare i soldi a casa. Le mamme sono sempre state determinanti anche nella crescita culturale. Mia mamma era una maestra dalla cultura smodata, adorata dagli ex alunni. Mio padre invece tirava la lima nel vero senso della parola, perché aveva un’officina».
Sua mamma quindi lavorava. Non era il classico angelo del focolare...
«E mio padre se la prendeva perché ce l’aveva con gli statali che lavorando quattro ore avevano tutti i privilegi, mentre a lui toccava stare dieci ore al giorno col freddo e col gelo in officina. La sera lo ricordo stanchissimo che tornava a casa e, quando ancora non avevamo il televisore, si appoggiava alla radio per ascoltare il notiziario ma si addormentava».
Parla della sua famiglia con molta tenerezza. Una famiglia costretta a fuggire dalla terra d’origine: la città di Fiume in Croazia.
«E esattamente questa è una delle ragioni per cui ho simpatia per alcune idee politiche rispetto ad altre. In Italia solo una parte si è preoccupata di quello che è stato l’esodo fiumano e istriano dalmata. Un’altra parte, anzi, ha cercato il più possibile di non parlare proprio nemmeno della tragedia delle foibe. Ci sono voluti decenni perché qualcuno se ne occupasse davvero. L’esodo e l’esilio cui sono stati costretti i miei genitori sono stati una tappa pazzesca delle loro vite. Sono andati in un campo profughi, in mezzo alle pulci, nello sconforto, tristi per aver dovuto abbandonare tutto quello che avevano».
Lei, invece, è nato a Verona.
«A Verona, dove sono stati accolti benissimo, i miei hanno ricostruito le loro vite e sono nato io che posso essere considerato la quintessenza della venezianità perché in casa parlavamo fiumano che somiglia molto al triestino e al veneziano. Quando andavo a giocare con gli amici parlavo in veronese e in più a scuola parlavamo nel nostro idioma italiano. Quindi posso dire di essere bilingue nei dialetti» (Sorride).
Ha poi avuto modo di visitare Fiume?
«Da bambino sono ritornato a Fiume tante volte perché i miei appunto erano molto legati alla loro città e non si fecero mai un cruccio a tornare. Ci ho passato tantissime estati».
Quando tornavate non avete riscontrato l’odio anti-italiano?
«Quando arrivavamo con la 600 carica di pasta, di caffè e di ogni genere alimentare, cose che lì non si trovavano. Sembrava stesse passando Babbo Natale, nonostante fosse estate. I bambini correvano intorno alla nostra macchina, alcuni erano scalzi. Le persone lì facevano fatica a tirare avanti la baracca. Nonostante io andassi al mare e fossi contento per questo, non potevo non vedere che mia zia al mattino andava a fare la fila per il pane che alcuni giorni c’era altri no... Questo era il paradiso di cui parlava Tito. Una bugia grande e grossa. Poi da adolescente giravo con la Lambretta 125 e mi sentivo come Marlon Brando. Più grande andai con il Gt rosso. Noi ragazzi italiani eravamo particolarmente apprezzati dal pubblico femminile».
Da uomo maturo invece è più tornato?
«No, ma penso di farlo adesso perché mi hanno invitato al Festival della canzone fiumana. Magari canterò, farò il mio spettacolo per gli amici. Lì tra l’altro vivono ancora i miei cugini Paolo e Liliana che mi sono molto cari».
La musica resta la passione più grande?
«Sì. Continuo a scrivere musica per il cinema. D’altra parte ho già firmato 35 colonne sonore. Dall’ultimo film di Steno a tantissimi con i figli Carlo e Enrico Vanzina. Scrivo ancora qualche canzone e poi faccio il mio enterteinment anche con mio figlio Rudy che ha seguito le mie orme, del resto ho inventato un genere: far cantare la gente. Poi è venuto Fiorello e gli altri...».
È stato un precursore del karaoke?
«Nel mio però si cantava con l’orchestra dal vivo e mai da soli ma anche in cori da 100 persone. Sempre con la speranza che alla fine le persone tornassero a casa felici. Pensi che anche Silvio Berlusconi, un grande uomo e un amico, finiti i suoi guai peggiori venne a trovarmi a Porto Rotondo e lo accompagnai al pianoforte. Perché sottotraccia era anche un uomo di spettacolo. Una persona davvero unica nel suo genere».
Un modo di intendere la musica, il suo, che sembra davvero agli antipodi con la trap in voga oggi... Da musicista cosa ne pensa?
«Bisogna stabilire una cosa: è nato un nuovo genere che è il famoso rap o trap, chiamalo come vuoi. Un genere che però non è secondo me strettamente musicale. È qualcosa di diverso, è qualcosa che comprende il ballo, il parlato, cantastorie moderni che raccontano. Tutto ciò avviene con una scenografia ben precisa, caratterizzata da una forte componente di trucchi, orecchini, tatuaggi, creste, crestine, crestone. Poi c’è la musica che faccio io, quella di Venditti, Battisti, Baglioni: tradizionale. Associarla ad altri nuovi generi secondo me è un errore».
Eppure i rapper vanno anche a Sanremo...
«Infatti Sanremo non è più il Festival della canzone italiana. È uno show. Ci sono monologhi, assoli, nani e ballerine. Le canzoni hanno sempre meno importanza, sta di fato che i pezzi di prima li ricordano tutti. Quelli dei Maneskin, che sono anche molto difficili da cantare, non credo diventeranno mai evergreen. Sono convinto che anche tra altri vent’anni canteremo ancora Volare e Il ragazzo della via Gluck».
E nel 2025 cosa si aspetta?
«Un’altra intervista su Libero (Ride). Una nuova colonna sonora da scrivere per il prossimo film di Pierluigi Di Lallo e magari andare a Dubai dove ci sono molti nuovi locali italiani dei quali sto valutando le offerte».