L'intervista

Jerry Calà vuota il sacco: "Chi ha paura di me. E dopo l'infarto..."

Daniele Priori

Jerry Calà ha tre città del cuore, sette vite come i gatti (paragone non casuale) e una brillantezza che lui associa alla sua natura di comico ma che in realtà somiglia proprio alla gioia di vivere. L’attore, nato Calogero Alessandro Augusto 73 anni fa a Catania, ha una carriera quarantennale nel mondo del cinema, due “incidenti” importanti, come li chiama lui. Uno trent’anni fa con la macchina e uno lo scorso anno per un infarto. Passaggi che gli hanno spiegato cosa significa rischiare davvero di morire ma dai quali lui ha tratto ancora più forza vitale, tanto da riscoprirsi attore da one man show. «E pensateci dice – che io avevo sempre avuto paura del palcoscenico».

Dopo il primo matrimonio a Las Vegas con Mara Venier, ora amica di tutta la famiglia, nei primi anni Duemila si innamora di Bettina, imprenditrice veronese con la quale mette al mondo Johnny, il figlio oggi ventunenne che gli sta dando solo soddisfazioni tra cui la laurea a primavera alla Scuola di Cinema “Luchino Visconti” di Milano.

Jerry, come ricorda lei tutte le sere ai suoi spettatori a teatro,la sua è ancora una Vita da libidine a quanto pare... 
«Sicuramente ho la fortuna di aver scelto un lavoro per cui ho ancora passione. So bene che non tutti vanno a lavorare col col sorriso...».
La sua libidine è uno dei termini sdoganati dalle cosiddette commedie sexy. Oggi col politicamente corretto che impera come se la sarebbe cavata? 
«Io appartengo a quel gruppo di attori che furono definiti i nuovi comici. Abbiamo riportato la satira di costume nella commedia, come dimostrano i nostri film degli anni 80, a partire da Vacanze di Natale. La differenza principale tra allora e oggi è che in quegli anni sparavamo battute a raffica mentre oggi c’è un po’ di autocensura a partire dagli attori stessi. Poi il fatto che con gli anni le sensibilità cambino ci sta. Allora non ci si pensava proprio. Contava solo che la gente andasse al cinema e ridesse».
C’è un’attrice con la quale ha recitato che le ha fatto un po’ perdere la testa...non solo artisticamente? 
«Certo. In uno dei primi film mi ritrovai a dover baciare Stefania Sandrelli che per me era un mito assoluto. Un po’ di sbarellamento in quel caso l’ho avuto... Avevo davanti un’icona del cinema, di bellezza e bravura. Poi tra l’altro Stefania è fantastica perché fu lei a metterci il carico da 11 mi disse: io i baci finti non li so dare, andiamo come si deve. Io le dissi: sì sì figurati...» (sorride).
Catania, Milano e Verona. Un uomo, tre città. Anche questo non è da tutti. 
«Catania è la mia patria. In Sicilia ci sono le mie origini e il luogo in cui sono nato che rimarrà sempre impresso nel mio cuore e anche nella mia memoria perché, pur essendo venuto via che ero molto piccolo, a 4/5 anni, però ogni anno, come usavano fare tutte le famiglie di emigranti, passavamo almeno un mese e mezzo d’estate a Catania. Per cui ho avuto modo di conoscerla bene la città. Una delle cose più belle che ho imparato lì è il rispetto per le persone anziane, una cosa che sussiste anche nelle nuove generazioni e non si cancella mai».
Milano è il primo approdo e la città dove tornerà per fare spettacolo. 
«Milano è Milano. Sono arrivato negli anni 50 e ho iniziato lì le scuole elementari. Un periodo non semplicissimo. Fuori dalle pensioni ricordo i cartelli con su scritto: non si affitta ai meridionali. A scuola bastava che facessero l’appello. Quando arrivavano a me Calà Calogero scattava la risata generale».
Poi però fu anche la città del suo riscatto quando cominciò a recitare al mitico Derby. 
«Il primo riscatto, in realtà, ci fu già ai tempi della scuola quando in quinta elementare vinsi una sorta di Ambrogino per aver avuto il coraggio di concludere un tema in cui dicevo chiaro che ero siciliano e me ne vantavo... Così poi sono riuscito a prendere l’imprinting milanese, l’accento che non ho più perso. Al Derby ci tornai con i Gatti. Ci scoprì per caso il Mago Zurlì in un ristorante e ci portò a esibirci a fianco a star come Jannacci, Cochi e Renato, Villaggio».
I Gatti sono i Gatti di Vicolo dei Miracoli. 
«A Verona ebbi la fortuna di entrare in un liceo, il Maffei, che aveva un teatro. Sono entrato a far parte della filodrammatica e lì ho incontrato gli amici coi quali poi saremmo partiti per l’avventura de I Gatti. Verona fu una sorpresa. A me che venivo da Milano all’iniziò mi era sembrata un po’ moscia. Poi invece scoprii una città che era in realtà una sorta di Liverpool italiana. Pullulava di complessini che facevano canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones, poi dei Rocks, dell’Equipe. Tanto che coi Gatti ci facemmo anche una canzone, Verona Beat».
Eravate un po’ ossessionati dal rimorchiare le ragazze. È vero? 
«A differenza di quanto accade oggi dove i maschi e le femmine escono in gruppi separati, allora se nel gruppo con cui si usciva non c’erano almeno un po’ di ragazze ci si sentiva sfigati. Forse oggi hanno meno il chiodo fisso perché in generale avere rapporti è più facile. Noi non avevamo alternative. Ci si incontrava solo dal vivo. Alla fine del mio monologo do la raccomandazione: meno chatto, più contatto». Com’è stato diventare padre a 50 anni? 
«Quando presi Johnny in braccio per la prima volta, giravo il reparto maternità come un pazzo dicendo a tutti: questo è mio figlio. In molti avevano provato a spiegarmi l’emozione che si prova. Un figlio è davvero l’unica persona per cui un uomo potrebbe dare la propria vita».
L’ha chiamato Johnny pensando di mettere su un duo. Suonerebbe anche bene: Jerry e Johnny. Non trova? 
«L’ho chiamato così per passargli le mie camicie. Tanto abbiamo le stesse iniziali (Ride). In realtà anche su questo c’è una storia. Mio padre voleva che lo chiamassi a tutti i costi Salvatore come lui ma mi rifiutai perché già avevano rovinato me col nome Calogero... Per qualche tempo non mi parlò. Poi ho trovato la soluzione».
Chiamarlo Johnny? E perché? 
«Perché mio padre faceva l’interprete di lavoro. Parlava varie lingue ed era molto esterofilo... Così si convinse».
Mara Venier, la sua prima moglie, è la Zia anche per Johnny? 
«Assolutamente sì. Siamo davvero come una grande famiglia. Siamo molto uniti».
Lei è un comico ma il dolore e la paura hanno avuto un ruolo importante in almeno due momenti della sua vita. Che ricordi ha? 
«Nonostante io sia di natura un fifone, in entrambe le occasioni, dai due grandi brutti incidenti che ho avuto, nel 1994 e l’anno scorso, sono riuscito a trarre dei benefici. Nel 1994 ero troppo centrato sul lavoro. Dopo l’incidente rallentai. In più provai anche a fare anche altre cose, come il one man show che avevo sempre temuto e ora è la mia attività principale. Dopo quello dello scorso anno, invece, mi sono reso conto di quanto il pubblico italiano mi voglia bene. Gli spettatori sono raddoppiati. Molti venivano anche solo per vedere come stessi».
Quest’anno poi è stato ricevuto anche da Papa Francesco. Che esperienza è stata? 
«Sono stato anzitutto molto felice per il fatto di essere stato annoverato tra i 100 comici invitati dal Papa che tra l’altro in quella udienza con poche parole ha distrutto il politically correct. Ricordo che disse: i comici vanno lasciati liberi perché Dio non si offende alle loro battute».
Come saranno le sue vacanze di Natale? 
«Ho un dicembre pienissimo che culminerà con l’immancabile spettacolo alla Capannina a Forte dei Marmi, dove ormai sono fisso da 25 anni per l’ultimo dell’anno. Quindi le mie vere vacanze di Natale le farò a gennaio».