Lo scenario per il 2026

Sanremo, il fanta-Festival di Amadeus: Littizzetto, Pelù e i partigiani di Giannini

Andrea Tempestini

Notte fonda. Un sussulto. Un risveglio improvviso. È una strana sensazione / in un bagno di sudore. Il mio corpo non cambia, la sensazione certo è strana, sudato sono sudato e per qualche secondo non capisco perché diavolo nel buio pesto mi tormentino le parole di Piero Pelù. Ma è solo questione di istanti. Tutta colpa del Tar!

Riacciuffo i fili del mio torpore: il Tar toglie Sanremo alla Rai, non pensavo mi importasse granché ma forse non è così. Vallo a capire, il subconscio. Il punto è che ho fatto un sogno: è il 2026 e c’è ancora Amadeus. Ma sul Nove. Sono pieni di soldi, quelli di Warner, si sono presi pure il Festival. E maledetto il mio cervello, all’Ariston non c’è mica un redivivo Domenico Modugno - sai la goduria nel farsi cullare nel blu dipinto di blu? -, niente Champagne né Peppino Di Capri. Mi toccano Piero Pelù e il suo insostenibile gorgheggiare.

È l’una e trentacinque circa e anche gli yankee di Warner si interrogano: «What the fuck», proprio Pelù? Il punto è che quella sera di stranezze ne hanno viste tante. La più iconica poco dopo le 23: Amadeus chiama sul palco il ratzingeriano Giovanni Lindo Ferretti, misteriosamente ospite a Sanremo ’26. Il mistero si risolve subito: Ratzinger e il ritorno al cattolicesimo ad “Ama” non interessano: l’unico tarlo sono le Affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi, l’esordio dei CCCP, era il 1986.

 

 

 

Ferretti manifesta inusuale nervosismo. Alla diciottesima domanda su Togliatti, come un Bugo qualsiasi lascia il palco incazzato nero, roba che neppure ai tempi del punk filosovietico. Ferretti strappa ranuncoli e mimose, le scaglia verso la platea, ovvio un principiante rispetto a Blanco, ma insomma di anni ne ha 73 e la scena resterà.
Quelli di Warner fin qui si danno di gomito. Attimi di smarrimento all’Ariston, tocca riempire il buco e dunque tocca alla “linea comica” catastroficamente affidata a Luciana Littizzetto.

L’anticamera dell’incubo, ma il martellante corteggiamento a Fiorello era fallito (troppo anche per lui, questo Sanremo). Lucianina legge una letterina. In balconata non c’è Pino Pagano, aspirante suicida in eurovisione nel 1995, ma al ventottesimo secondo della letterina – quando Lucianina ha già scandito «Giorgia», «San Valentino» e «Signore dammi una buona digestione» - in balconata c’è scompiglio. È Al Bano che si dimena, si arrampica, vuole lanciarsi nel vuoto. Lo trattengono per la pashmina viola-fantasia che finisce quasi per strangolarlo: più che la nona esclusione consecutiva dal Festival poté la letterina. Pippo Baudo non c’è ma spunta Flavio Insinna: al grido di «io sarò sempre al fianco degli oppressi» si propone come eroe salvifico. Ma la frase sugli «oppressi» è sufficiente: Al Bano si ravvede e si divincola, perde occhiali e pashmina, fugge dall’Ariston urlando. Quelli di Warner adesso stappano. Che Festival, questo Festival!

 

 

 

C’è Ghali, Amadeus lo introduce come «il Mino Reitano della generazione Z» (da Italia a Zingarello). C’è Mahmood, «il Toto Cutugno di un mondo no-border» (da L’Italiano a Baci dalla Tunisia). Dichiarazioni di intenti anticipate dal picco di megalomania inclusiva con cui apre la prima - storica serata di Sanremo su Nove. Le note di Titanic di De Gregori, il telegenico Amadeus si materializza all’Ariston fluttuando su una zattera posticcia, «cari amici vicini e lontani buonasera, buonasera ovunque voi siate!». Un tripudio di iperglicemico buonismo di cui Nunzio Filogamo – meno telegenico – con discreta approssimazione avrebbe fatto volentieri a meno.

Ore 20.48. Dopo i salamelecchi iniziali, ecco le co-conduttrici: una rediviva Alba Parietti e Alessandra Mussolini, la Duciona che a suon di gay pride e abiure si è guadagnata le stellette. Potere della svolta gender. Seguono altri salamelecchi (vi prego, svegliatemi!).

Ore 21.06. Amadeus svela alcune variazioni sul tema. Il premio della Critica “Mia Martini” viene intitolato a Rino Gaetano (parte di un processo di riappropriazione culturale: «Non era né di destra né di sinistra», tuonò il nipote, ma forse il nipote sbagliava ed è meglio fugare ogni dubbio). Al miglior testo viene assegnato il premio “Palombella rossa” (Amadeus, pare posseduto, urla che «le parole sono importanti!». Fortunatamente non prende a schiaffi nessuno); il Premio Sala Stampa viene sfilato a Lucio Dalla e passato a Piero Ciampi; al brano dal maggior valore musical-letterario va il “Premio La Locomotiva”, omaggio a quel Francesco Guccini che saggiamente, al contrario di Ferretti, ha scelto di non abbandonare il suo presidio appenninico; il premio al miglior testo sui temi sociali è in onore di Sandro Curzi, così, un po’ a casaccio, ma con la Rai era finita male e su Nove si sistema tutto. Niente premi al femminile: furibonde polemiche di “Non una di meno” e Boldrini Laura, ma grazie a Dio il mio subconscio scaccia subito l’onirico sotto-plot.

Ore 21.22. Video-saluto di Taylor Swift. Sticazzi... Inizia la gara. Clamoroso all’Ariston: spunta Vasco Rossi. Un cameo, dirige Fiorella Mannoia e per i maligni è una conferma del fatto che al Festival, il direttore d’orchestra, non serve a niente. Sarà per questo che Peppe Vessicchio anche quest’anno non c’è. Ci sono invece i Ricchi e Poveri ma senza la “brunetta”: al posto della Brambati, Angelo Sotgiu si ritrova ad occhieggiare sul palco con Mimì, la vincitrice di X-Factor, partner assai più inclusiva (la hanno imposta quelli di Warner, la Brambati sgranava troppo gli occhi e le origini maliane di Mimì ci stanno bene). Un po’ di rapper (Fedez no, ché si è ricollocato col generale Vannacci). Ovazione per Dargen D’Amico. Elodie sempre più succinta canta la sua libertà di svestirsi che nessuno mette in discussione. Clamoroso ritorno in gara dopo 15 annidi Roberto Vecchioni, parole e musica di Michele Serra.

Stacco. Momento-varietà. Dalla mitologica scalinata scendono tenendosi per mano Rose rosse per te, cantano e ballano, era dal lontano 2010 - quando Beppe Bigazzi spiegò su Rai 1 la ricetta del gatto in umido - che non si provava tale tele-imbarazzo. Segue monologo di Paolo Berizzi su fascismo e avanzata delle “destre”. Stacco. Super-ospite italiano: Gino Paoli.

Stacco: torna la gara. Stacco. Super-ospite straniero: gli Inti-Illimani (cantano ancora!). Stacco. Monologo off-topic di Walter Veltroni sul futuro del cinema italiano (ma perché?). Stacco. Super-ospite straniero: Roger Waters che “Israele stato disgustoso e genocida” e qualcuno lo confonde con Dargen. Stacco: ultimi artisti in gara. Stacco: Bella Ciao (pure lei...). «What the fuck?», quasi era meglio Chiara Ferragni. Aridatece Benigni! Al primo posto in classifica provvisoria - il voto è esclusiva per gli iscritti alla chat “25 Aprile” di Massimo Giannini – c’è Rosa Chemical. Io non ne posso più. Chissà quelli di Warner. Mi risveglio. E lo share?