La rivelazione
Potsie di Happy Days, "malessere intestinale": come si è salvata la serie
Mezzo secolo dopo sono sempre «happy days», giorni felici, per chi ama quella indimenticabile serie tv nata nel 1974 e diventata cult in tutto il mondo. Richie Cunningham aveva i suoi problemucci con le ragazze, il 45 giri di «Rock around the clock» imperversava, Fonzie esclamava «hey!» davanti alla signora Marion, un hamburgher lo si divorava da Arnold’s e Potsie era il più impacciato di tutti ma anche il più simpatico fra i ragazzi che coloravano quei giorni davvero felici. Transgenerazionale come poche altre saghe, «Happy Days» è ancora lì, dentro di noi, e la cosa fantastica è che di questi mini-film sull’America spensierata degli anni Cinquanta si invaghisce tuttora la generazione 2.0. Ce lo conferma Anson Williams, per l’appunto il Potsie della serie, intercettato in vacanza al Grand Hotel di Rimini nell’ambito degli incontri della «Terrazza della Dolce Vita», bella rassegna ideata e condotta da Simona Ventura e Giovanni Terzi.
Potsie, e ci perdoni se la chiamiamo così ma per noi lei sarà sempre Potsie e non Anson: mai titolo di una serie è stato più azzeccato, “Happy Days”. Come i suoi?
«Sì. Io sono stato sempre presente in tutti e 255 gli episodi di quella saga che amo molto, non ricordo una lite tra noi attori durante le riprese. Siamo stati una grande famiglia sul set per 11 anni. Divertivamo e ci divertivamo e il telespettatore avvertiva questa complicità. Un qualcosa di indefinibile che resterà per sempre».
Nel 1974, prima di “Happy Days”, lei non era un attore affermato: come venne scelto per interpretare Potsie?
«Avevo recitato in uno spot per McDonald’s. Feci un provino già nel 1972 per un pilot che si chiamava “Love American Style”. La puntata non andó bene però venni richiamato tempo dopo il cast definitivo di “Happy Days”, ma rischiai di non essere scritturato».
Non piacque il primo provino?
«No, no. Il motivo fu un altro: ero a casa, in bagno seduto sulla toilette per un malessere diciamo così... assai fastidioso. Il telefono squillava, erano i produttori. che mi volevano scritturare ma non sentivo lo squillo. Mi ritelefonarono spazientiti e quando uscii dalla toilette alleggerito, volai negli studi della Paramount per il provino. Arrivai in ritardo per un temporale, ho rischiato parecchio, ma per il rotto della cuffia sono entrato nella leggenda di “Happy Days”».
Lei ha vissuto il crescente successo della serie e la consacrazione di Ron Howard nella parte di Richie e di Henry Winkler in quella di Fonzie...
«Calma, dopo la prima stagione che venne messa in onda dalla Abc gli ascolti crollarono nella seconda. Il creatore di “Happy Days”, il grande Gerry Marshall, decise allora di apportare alcuni cambiamenti: si girò di più in studio, meno in esterno e venne persino cambiato il giubbotto di Fonzie. Prima era un bomberino di tela chiara poi gli fu messo addosso un giubbotto di pelle che faceva molto Marlon Brando del film “Il selvaggio”».
Prese più importanza proprio il personaggio di Fonzie, vero?
«Inizialmente il protagonista doveva essere Richie, ovvero Ron Howard, visto che Ron era un attore famoso, aveva già lavorato in film di successo anche con John Wayne. Poi Fonzie gli ha un po’ mangiato la scena. Howard non ci rimase male, era altruista. Come ho detto prima l’atmosfera sul set era idilliaca, mai state gelosie in “Happy Days”. Probabilmente Ron ragionava già con la mentalità del grande regista che avrebbe poi vinto l’Oscar: aveva capito l’importanza di Fonzie nella serie e fece un passo indietro».
Lei è rimasto in contatto con Ron, con Don Most che interpretava Ralph Malph e con Henry, ovvero Fonzie?
«Siamo amici, non solo colleghi. Dia un’occhiata a questa foto che ho appena inviato a Ron (mi fa vedere il display del suo iPhone e l’immagine, è un quadro che raffigura una scena di Amarcord, di Federico Fellini, ndr). Howard ama molto il cinema italiano».
Era un set di veri amici, fatto raro nel mondo del cinema e della televisione dove impera la gelosia e ci si scanna per un’inquadratura in più, vero?
«Le faccio un esempio: dopo 50 anni ci siamo già dati appuntamento per il prossimo 28 ottobre quando Marion Ross, ovvero la deliziosa signora Cunningham, compirà 96 anni. Lei rappresenta “Happy Days” meglio di chiunque altro».
Il segreto del successo eterno di questa serie?
«Fu un’ottima chiave di lettura: piccoli film familiari che andavano in onda quando le famiglie si ritrovavano prima di cena. Continua a mietere consensi quando le stagioni vengono replicate in tutto il mondo, anche in Giappone. La serie faceva 64 milioni di telespettatori a settimana ma non ci siamo mai montati la testa. Arrivó negli anni ‘70 dopo il Vietnam e le contestazioni del ‘68, fu una riscoperta dell’America di vent’anni prima. Al cinema spopolava quel capolavoro di George Lucas che è stato “American Graffiti” e c'era la voglia di far gli spensierati anni ’50, quelli del rock’n’roll».
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Potsie, lei era il cantante melodico nella combriccola di “Happy Days”, ricordiamo certe puntate nelle quali imitava i grandi corner americani.
«Beh, recitavo ma tenevo anche dei concerti con una certa dose di soddisfazioni. Una volta venni scritturato per sostituire Sammy Davis Jr. in quattro serate».
Ci racconta di quando ricevette i complimenti da John Lennon?
«Era il 1975, arrivó improvvisamente sul set l’ex Beatle con il figlio Julian che era un grande fan di “Happy Days”. John ci fece i complimenti e sussurró: ehi, Anson, sai che canti bene? Rimasi pietrificato. Da qualche parte c’è anche una foto di quella giornata magica. Poi incappai in Elvis».
Presley?
«Sì. Ci incontrammo per un’iniziativa benefica dopo un suo concerto, erano ormai gli ultimi anni della sua vita ma rimasi colpito dalla dolcezza quando vide una bambina che era con noi. Fu molto gentile. Poi lo vidi salire sulla sua limousine e sparire nella notte. Per sempre. Fu una scena quasi da film».
Una curiosità: suo zio era una celebrità in campo medico, vero?
«Si chiamava Henry Heimlinch e fu l’ideatore della famosa manovra antisoffocamento che, negli anni, ha salvato milioni di persone».
Sta girando film?
«Ho un progetto che si chiama “Crazy Mama” sulla drammaticità della salute mentale. Racconta una vicenda reale che ha riguardato mia moglie Sharon: un giorno, da bambina, tornò a casa e trovò sua mamma con un coltello in mano: aveva perso perso il lume della ragione. Nel film vorrei narrare questa tematica con risvolti anche umoristici, lo vedo come un inno alla speranza e alla guarigione».
Come è ora la vita da ex Potsie?
«Ho partecipato alla produzione e alla regia di serie tv quali “Beverly Hills 90210”, “Melrose Place”, “Star Trek Voyager” e “Un detective in corsia”. Poi ho avviato attività nel campo dell’alimentazione, mi sono risposato con Sharon e mi sono anche salvato da un cancro».
Prego, racconti...
«Era il Natale del 2016, avevo dolori alla pancia e mi hanno scoperto un cancro al colon dello stadio 2. Sono stato operato e, grazie a Dio, ora ho 74 anni e sto bene. E ripenso sempre: beh, sono stato fortunato, con i miei amici abbiamo regalato giorni felici a tanti. È questo il mio orgoglio».