Strepitosa

Meryl Streep, uno tsunami a Cannes: lo schiaffo ai mostri malati di protagonismo

Emilano Dal Toso

Parte il Festival di Cannes e si annuncia un’edizione a rischio di turbolenze. Da una parte, l’ansiogena attesa per l’attrice francese Judith Godrèche (Ridicule, L’appartamento spagnolo), oggi cinquantaduenne, a seguito delle sue accuse di stupro e abusi sessuali nei confronti di due registi risalenti a quando lei era adolescente.

Dall’altra, la notizia della fuga dall’Iran del regista Mohammad Rasoulof, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2020 per Il male non esiste, dopo essere stato condannato a otto anni di prigione: al momento, il cineasta non ha rivelato in quale luogo si sia rifugiato, ma appare molto probabile che possa partecipare alla presentazione in anteprima mondiale del suo ultimo film, Seed of the Sacred Fig Tree, in concorso alla Croisette.

Il regime del suo Paese lo aveva accusato di “collusione contro la sicurezza nazionale”. E così, nonostante nella conferenza stampa di apertura del festival il direttore artistico Thierry Frémaux abbia cercato di assicurare che la kermesse non sarebbe stata caratterizzata da scandali e polemiche, sembra che i fatti vadano nella direzione opposta: la guerra tra Israele e Palestina, il #MeToo alla francese e l’annunciato sciopero dei lavoratori sono fatti che inevitabilmente potrebbero incidere sulla serenità e sulla normalità della manifestazione.

A ogni modo, la Palma d’oro d’onore assegnata ieri alla grande Meryl Streep, oggi splendida 74enne, appare un riconoscimento inappuntabile, che riporta il cinema al centro del villaggio, e che in parte rassicura una rassegna che altrimenti rischierebbe di essere eccessivamente turbata dai subbugli sociali, ultra-femministi e politici. E si tratta pur sempre di un premio doveroso nei confronti dell’attrice che più di tutte è diventata un modello di riferimento, un autentico metro di paragone per tutte le ragazze che sognano un giorno di affermarsi in questa professione: quella della Streep è una filmografia magnifica e sterminata, che inizia con il film “simbolo” sulla guerra del Vietnam, Il cacciatore (1978) di Michael Cimino, e attraversa la New Hollywood dell’anticonformismo, il progresso capitalista degli anni Ottanta, la leggerezza e i sogni infranti degli anni Novanta, ma anche le inquietudini del Terzo Millennio. Tantissimi i film in cui si è resa indimenticabile: risulta perlomeno obbligatorio ricordare l’ironia agrodolce di Manhattan (1979), le crisi famigliari di Kramer contro Kramer (1979), gli strazianti frammenti di La scelta di Sophie (1982), ma anche la raffinata patina folkloristica di La mia Africa (1985) e la furia corrosiva di pellicole velenose, tra risata e thrilling, come She-Devil (1989), Cartoline dall’inferno (1990), La morte ti fa bella (1992).

E poi, il senso del melodramma secondo Clint Eastwood, mai piagnucoloso, sempre struggente, dolente, umano nel meraviglioso I ponti di Madison County (1995). I numeri parlano da soli: 21 candidature, tre Oscar. Anche i più giovani la ammirano: basti pensare alla crudele e iconica Miranda Priestly di Il Diavolo veste Prada (2006), al festaiolo delirio musicale di Mamma Mia! (2008), alla dura, impeccabile e granitica Margaret Thatcher di The Iron Lady (2011). E infine, la giornalista idealista di The Post (2017), uno dei capolavori di Steven Spielberg. Semplicemente immensa.