L'opinione
Giampiero Mughini: "Questo 25 aprile è una grandinata di retorica"
Non saremo mai sufficientemente grati a Giampiero Mughini per i libri che ha scritto». Questo era l’esordio della recensione apparsa su queste pagine al suo penultimo libro. Ci ripetiamo? L’autore se lo merita. Repetita Juventus. Un errore da latino maccheronico (la paternità è di un democristiano). Certo non stona per l’omaggio al tifoso juventino più conosciuto e stravagante d’Italia. La sua nuova fatica letterario-saggistica si intitola Controstoria dell’Italia (Bompiani, pagine 256, euro 19). Siamo andati a trovarlo nella bella dimora romana, casa museo, ribattezzata Muggenheim, incastonata fra Trastevere e Monteverde. È uno spettacolo! Occorre muoversi con accortezza. Anche l’accomodarsi sulla poltrona arreca imbarazzo. Potresti sfondare un pezzo unico sfornato dalla creatività italiana. Tranquillizziamo il lettore (e il proprietario): non abbiamo provocato nessun danno. Evviva! Parliamo dunque della Controstoria d’Italia. Mughini rilegge la propria vita, dalla fanciullezza (l’autore è nato a Catania nel 1941) alla maturità. E nel rileggerla la vede riflessa nella storia nazionale, da Mussolini a Berlusconi.
Partiamo dall’attualità. Dai festeggiamenti per il 25 aprile.
«Avevo tre anni e a Firenze, a casa mia, entrarono i partigiani. Mio padre fascista non c’era. Cercava altrove riparo. Si combatteva strada per strada. I cecchini repubblichini sparavano dai tetti. C’è una splendida pagina in La pelle di Curzio Malaparte che ricorda quelle giornate. Volevano piazzare una mitragliatrice sul balcone. Mia madre li accolse con un sorriso. Fortunatamente l’angolo di tiro non era buono. E andarono via. Ebbi l’impressione di aver partecipato anch’io alla lotta di liberazione. Sono stato un ragazzo sca«N tenato nel convincimento che da lì sarebbe partita una nuova storia. Che l’antifascismo ci avrebbe condotto in una sorta di paradiso terrestre. Con il tempo ho compreso che ogni accadimento non può essere interpretato solo con la luce o l’ombra. Il bianco o il nero. Il 25 aprile sancisce la fine della guerra. E di una guerra nella guerra, combattuta fra italiani, odiosa, fratricida: la guerra civile. Sono passati quasi quattro ventenni. E continuiamo a dividerci. La retorica antifascista puntualmente accompagna la ricorrenza. Spesso piove. Talvolta grandina retorica. Quando saremo in grado di capire le ragioni di tutti, giuste e sbagliate, non avremo più bisogno dell’ombrello per ripararci dall’acqua piovana, leggera o pesante».
Ancora oggi quanti hanno creduto nel comunismo non riescono a fare i conti le illusioni del passato. Mughini è una rara eccezione. Già prima della rovinosa caduta del comunismo nel 1989, in Compagni, addio (1987), si congedava, garbatamente ma con fermezza, dal caravanserraglio della sinistra sessantottina e postsessantottina.
«Avevo deciso di rompere con la mia generazione. Non sapevo dove sarei andato. Ma dovevo battere nuove strade, senza alcun preconcetto. Ad esempio, volevo capire il mondo della nuova destra.
Ed ho incontrato giovani di talento, che avrebbero fatto un’eccellente carriera. Il filosofo Marcello Veneziani. Il critico letterario Stenio Solinas. Il politologo Marco Tarchi. L’organizzatore culturale Umberto Croppi. Occorre sempre guardare al di là degli steccati. Mai chiudersi nel proprio orticello, rimanendo vittime dei pregiudizi».
Nel mezzo secolo di storia italiana ricordato da Mughini, il «miracolo economico» è uno snodo fondamentale.
«Alzandosi la mattina per andare a lavorare, con grande determinazione, gli italiani costruirono il miglioramento della loro vita e del loro futuro. La classe politica dei De Gasperi (democristiano), dei Saragat (socialdemocratico), dei La Malfa (repubblicano), li aiutarono. Un deciso contributo alla modernizzazione lo portarono anche registi, editori, intellettuali, manager privati e statali, stilisti, disegnatori. Oggi purtroppo di molti di loro si è perso il ricordo».
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A vederlo Mughini non offre l’immagine della saggezza. Resta pur sempre un ribelle, anche con i capelli bianchi. Impossibile prevedere la risposta ad un quesito. In realtà i suoi ragionamenti grondano buon senso, moderazione. Prendiamo le braccia alzate di Acca Larenzia.
«La pressoché totalità dei commenti si è concentrata sul saluto romano dei presenti alla commemorazione. Ma i fatti storici ricordano che tre giovani vennero uccisi. E di questo dovremmo parlare. Di questo dovremmo ragionare. Come è stato possibile? Come è stato possibile, ad esempio, che l’omicidio dei fratelli Stefano e Virgilio Mattei - uno di 22, l’altro di 10 anni - morti nel rogo di Primavalle (16 aprile 1973), venisse attributo ad una faida tra fascisti. Lo sostennero Dario Fo, Franca Rame e Umberto Terracini. Quest’ultimo, dirigente comunista, aveva conosciuto il confino e la galera fasciste, ma anche l’ostilità degli stalinisti per le sue posizioni. Possibile che si lasciasse trascinare in quella indecorosa gazzarra? Che amarezza!».
Ci sarebbe tanto altro da discutere con Mughini. Ma è tempo di chiudere. Il cane abbaia. Ci guarda minacciosi. Non abbiamo arrecato danni al patrimonio del Muggenheim. Promettemmo la volta scorsa: al prossimo libro. Promessa mantenuta. A Libero le porte sono sempre aperte per un talento giornalistico d’eccezione, allergico alle ovvietà e al pensiero dominante.