Il musicista

Mauro Repetto: "Così ho salvato l’Uomo Ragno". La rivelazione dell'ex 883

Daniele Priori

I fantastici anni 90 cantati e suonati dagli 883 approdano a teatro. Mauro Repetto, fondatore e autore dei più grandi successi del gruppo, porta in scena lo spettacolo dal titolo evocativo Alla ricerca dell’Uomo Ragno. Un one man show che debutta il 28 aprile a Villa d’Almè (Bergamo) e che con alcuni appuntamenti in anteprima (9 maggio Crema, 18 maggio Bollate, 20 maggio Firenze, 30 maggio Monza) rispetto al tour invernale vedrà Repetto dialogare con gli 883, cioè lui stesso e Max Pezzali, come erano da giovani, grazie all’aiuto dell’Intelligenza Artificiale.

Lo show nasce sulla scia del libro Non ho ucciso l’uomo ragno (edito da Mondadori), firmato da Repetto e calorosamente accolto da pubblico e critica.

L’Uomo Ragno è davvero ancora vivo?
«Hanno ucciso l’uomo ragno è la metafora della società che, quando si diventa adulti, uccide un po’ l’eroe che è dentro di te. Quello che scopriamo con questo spettacolo è invece che in realtà il supereroe non viene ucciso perché il superpotere non è la ragnatela o volare tra i grattacieli di New York e le luci di Broadway, ma è affrontare la vita col sorriso e impegnarsi a fondo fino alla fine di ogni giornata. Perciò chiunque può avere questo superpotere che può davvero cambiare le cose. Per questo non potranno mai ucciderlo. Per questo non l’ho ucciso io e, anzi, ne vado alla ricerca».

 

 

Da cosa nasce la scelta di tornare in scena dopo 30 anni?
«Nasce anzitutto dall’incontro con i due registi: Stefano Salvati con cui abbiamo girato tutti i video, tra cui quello di NordSudOvestEst a Los Angeles, e Maurizio Colombi, regista di teatro numero uno, autore dei più importanti musical, che mi hanno proposto di fare que sto spettacolo. All’interno troveremo anzitutto la grande novità dell’Intelligenza Artificiale. Io ho accettato a condizione che non sia lei a dettare le leggi, ma diventi piuttosto schiava della mia poetica. Ti faccio un esempio. Con l’Intelligenza Artificiale potremo dar voce alla bambina mai nata per il fatto che io non sono mai riuscito a incontrare Brandy, la mitica modella che scelsi di seguire, trasferendomi in America a metà anni Novanta. Questa bambina immaginaria potrebbe rimproverarmi il fatto che all’epoca al Festivalbar ballavo talmente male da non essere riuscito a far colpo su quella che poteva essere la mamma, proponendosi, magari con l’aiuto di TikTok, di insegnarmi finalmente qualche passo di danza...».

Cosa altro c’è nel suo spettacolo?
«Faremo certamente una scorpacciata di canzoni degli 883 e rideremo perché a teatro si va anche per ridere. Ci sarà spazio per l’autorionia con l’Uomo Ragno che mi pungolerà per i colpi di spada nell’acqua che ho tirato in America dove ho provato, senza riuscirci, a proporre a Hollywood un film scritto e diretto da me. A parte ridere e cantare ci sarà anche un tributo ai Bon Jovi. Io e Max, infatti, ragazzi di Pavia, di fronte all’impero milanese provavamo quello che, immaginavamo, potessero aver provato Jon Bon Jovi o Bruce Springsteen, entrambi originari del New Jersey di fronte all’impero di Manhattan, a New York. All’epoca c’era il sogno americano. Ascoltare ballad come Never say goodbye ci ha portato al pop e a scrivere Come mai immaginando che potesse averla scritta Bon Jovi. Ma anche Con un deca o Gli anni ascoltando Springsteen».

Pavia era il vostro New Jersey...
«Esattamente. Questa equazione Pavia-New Jersey ci ha sempre fatto sognare per cui vorrò fare un omaggio a Bon Jovi e mi piacerebbe cantare Bed of Roses uscita nell’anno in cui abbiamo pubblicato Hanno ucciso l’Uomo Ragno».

Ma gli 883 erano più la spensieratezza di due ragazzi o la fuga da un’Italia che ha visto la stagione delle stragi di mafia e un intero sistema politico finire in frantumi?
«Possiamo dire che lo stare in provincia ha ovattato per noi un po’ tutto. Dove siamo cresciuti noi ancora si viveva con i genitori. La nonna era ancora una figura importantissima. Poi c’era lo sport che ci faceva tenere i piedi per terra e la musica per evadere. Avevi tutto quello che serviva per bucare il cielo della provincia. Eravamo anche una generazione cresciuta da genitori umili ma felici che ci hanno insegnato a non avere alternative al lavoro. Però avevamo la possibilità di fuggire grazie alla musica e ai film di Hollywood».

E lei, inseguendo il suo sogno, scegliendo di non firmare pur avendo scritto quel capolavoro che è Gli anni realmente da cosa fuggiva?
«Avevo una sirena in tutti i sensi. Sia sirena come chimera, ma anche un allarme nucleare che urlava dentro di me. Quando scrivevamo Gli anni pensavo a come andare a Parigi il giorno dopo alla Fashion Week a conoscere Brandy. Quindi era finita. Sapevo che era una canzone bellissima, ma con la testa volevo un’altra storia, “un altro posto e un altro bar...” e la mia onestà intellettuale mi impediva di stare lì. Ciò non significava però fuggire. Non fuggivo, mi inseguivo... Cercando quello che nemmeno sapevo bene cosa fosse, come cantavamo in NordSudOvestEst. Forse io cercavo il sogno americano e questa ragazza che avevo visto sulle pagine dei giornali di moda».

Che però non ha mai conosciuto...
«No. Ho conosciuto le sue amiche, ma con lei non sono mai uscito. Vabbè, l’ho inseguita per due settimane. Non è diventato un tormentone insomma... (sorride, ndr)».

 

 

Lei girerà l’ Italia in tournée ma ormai la sua vita è in Francia. Come l’ha trovato il nostro Paese tornando?
«Io direi bene. Ero a Milano in questi giorni e non ho visto niente che mi abbia fatto pensare negativamente. L’unica città che mi ha fatto un po’ malinconia è Genova, dove sono nato, che ho trovato ancora più malinconica di quanto me la ricordassi. I liguri parlano di maccaja, clima caldo, umido. Spero che questa maccaja sia solo passeggera e il sole risplenda presto anche su Genova che amo tantissimo».

È vero che canterà in inglese il pezzo che scriveste per Fiorello a Sanremo 95, Finalmente tu?
«Originariamente l’avevamo scritto in inglese con titolo in francese... Eravamo talmente fuori di testa che volevamo presentarlo così, ma poi la Warner ce la rimandò indietro chiedendoci un testo in italiano. L’ho cantata un paio di volte in inglese, ma ho notato che la platea era un po’ frustrata. Alla fine la canterò in italiano anche se penso che Alicia Keys potrebbe cantarla in inglese e dominare le charts... (sorride, ndr)».

Ha invitato Fiorello allo spettacolo?
«L’ha fatto uno dei due registi. So pure che è impegnatissimo. Lo spero. Del resto è sempre stato un amico. L’ho visto debuttare quando eravamo anche noi alla corte di Claudio Cecchetto e lo stimo tantissimo».

Non è che a fine tournée ci annuncerete una clamorosa reunion degli 883?
«Quello che posso dirle e di cui sono sicuro è che io e Max non abbiamo mai realmente lavorato assieme. Abbiamo trascorso pomeriggi scrivendo tre album, ma è avvenuto prima del successo, per cui era un modo per passare il tempo. Appena la cosa è diventata un lavoro, ci siamo separati. Non ci sono problemi a livello d’amicizia. Mai abbiamo parlato di fare un nuovo pezzo assieme. Potrebbe strabordare, ma dovrebbe capitare, venire da sé. Non penso potrebbe essere... un lavoro normale».