L'umorista in sedia a rotelle

Francesco Fanucchi: "Sfotto tutti, soprattutto me stesso"

Alessandra Menzani

Femministe, napoletani, gay, Hitler, Mussolini, disabilità, sesso: finalmente uno che, nonostante i diktat del politicamente corretto, non risparmia nessuno. Unico limite/imperativo: fare ridere. “Diffidente come un ligure e irascibile come un toscano”, come si auto-definisce, Francesco Fanucchi è il corrosivo comico lucchese, classe 1994, che spopola su Youtube e sui palchi del tour nazionale Molto pop!. Lo fa seduto sulla sua sedia e rotelle, scherza anche su se stesso perché la «disabilità è una cosa che mi appartiene ma non mi definisce». Molto pop! è il secondo spettacolo che scrive (tutto da solo).

Qual è stato il momento in cui ha capito che faceva ridere e chele piaceva?
«Da bimbo, a sette anni, mi piaceva dare spettacolo in famiglia, davanti ai genitori. Facevo le vocette, i miei ridevano».

Imitazioni?
«Sì, diciamo così. Imitazioni di imitazioni. Copiavo la calata: Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Alberto Angela. A scuola facevo le parodie dei professori: avevano un certo successo. Oggi nel mio spettacolo faccio imitazioni spot ma funzionali allo show, non cerco il virtuosismo».

E poi?
«Beh, in età matura, a 25 anni, mi sono esibito in una serata Open mic, microfono aperto, a Pisa in una stand up scritta da me. E lì ho capito: nonostante la fortissima emozione, mi sono divertito. E ho pensato di continuare a farlo. L’esperienza è tutto». 

Ha studiato?
«Nì. Avevo fatto teatro amatoriale a Lucca, la radio all’università, intrattenimento e caciara, ero un nerd ma non avevo trovato una dimensione propriamente mia. Il palcoscenico la è. Più lo fai meno ti senti inesperto».

 

 

Scherza su gay, femministe, Hitler. Nello spettacolo che porta in scena, prodotto da The Comedy Club, sembra non temere nulla. Non ha paura della cultura woke? Di offendere qualcuno?
«Non mi sento condizionato né dalla cultura più progressista né da quella più conservatrice. Le mie gag possono fare arrabbiare sia chi è di destra sia chi è di sinistra: sono bipartisan. Cerco di non pensarci: sono il primo che non si prende sul serio e non pretendo che gli altri lo facciano. La libertà che mi prendo è uno spazio franco in cui appartengo solo a me stesso».

Ma si pone limiti?
«Gli unici limiti sono la coscienza individuale o l’ignoranza: se non conosco a sufficienza un argomento e non mi sento sicuro, evito. Lo bypasso, se no mi sentirei un impostore. E poi il limite artistico: se ho sentore che quella battuta non faccia ridere, meglio lasciare perdere».

Ma qualche permaloso lo trova?
«Devo dire che sono molto sorpreso: sia negli spettacoli live che sui social, dove tutti commentano, leggo per maggior parte reazioni positive. Succede che quando scherzo sul Fascismo al massimo mi dicano: guarda che anche a sinistra hanno fatto cose terribili».

Si offendono più a destra o sinistra?
«Dipende dall’argomento. In generale spero sempre che una volta entrate a teatro le persone non portino le proprie idee politiche e si lascino andare alla risata».

Ha dei modelli?
«Allora, per non sembrare borioso, preferisco dire chi mi piace: Dave Chapelle e Ricky Gervais tra gli americani; Dario Fo, Gigi Proietti, Carlo Verdone, il primo Benigni tra gli italiani. E poi Ivano Bisi, comico di Pisa, Edoardo Ferrario, Luca Ravenna, Valerio Lundini, Michela Giraud».

 



L’attira la tv?
«La conosco poco. Ho avuto solo ottime esperienze a Comedy Central e in Rai da Alessandro Cattelan. Lol, su Amazon Prime? Mi sembra un format interessante ma complicato: io rido molto, perderei subito visto che lo scopo del gioco è riuscire a non ridere. Non so come facciano».

C’è un tema su cui non si può scherzare?
«No. Anche le cose più imbarazzanti sono comicamente interessanti. In una gag racconto di quando da bambino ero omofobo: c’è una base di verità, una paura irrazionale e sciocca che abbiamo tutti, perché mio nonno rimproverava alcuni miei atteggiamenti».

Il suo vissuto e la sua disabilità quanta parte hanno nello spettacolo?
«Parlo dello stigma sociale della disabilità: una condizione che mi appartiene ma non mi identifica. Parlo del corto circuito sociale che la disabilità innesca nelle altre persone. Esempio: è ancora un tabù la sessualità in generale, figuriamoci la sessualità legata all’handicap».

L’inclusività è la parola che è di moda usare?
«Se sia una moda o un fatto culturale lo scopriremo nei prossimi anni. Noto, però, che si rischia di fare il giro opposto: la donna che parla solo di femminismo o il nero che parla solo di razzismo non penso portino a una emancipazione ma solo ghettizzazione. Si chiude lo sguardo più che allargarlo».

Qual è il suo obbiettivo dei prossimi anni?
«Fare ridere sempre più persone».