Sorpresa
American Fiction, il film dove i neri ridono di se stessi
L’inizio di American Fiction (candidato a cinque premi Oscar) è folgorante e dà subito il senso di quello che il film vuole sottolineare, raccontando una spaccato attualissimo della società americana. Un professore universitario afroamericano (Jeffrey Wright, candidato come miglior attore protagonista) sta tenendo una lezione sulla letteratura americana del dopoguerra, in particolare sulla scrittrice Flannery O’ Connor e su un suo racconto del 1955 The Artificial Nigger, il cui titolo campeggia in bella vista sulla lavagna alle spalle del docente. È già la scelta di puntare da subito su un sostantivo ormai proibito (n-word, si dice ora con pudore negli Stati Uniti) di questi tempi in un film è una piccola rivoluzione. Quella parola è bandita e nessuno osa più nemmeno pensarla, figurarci farci l’incipit di una storia. Proseguendo poi nella scena ecco che una studentessa bianca interrompe la lezione del professore per dirsi offesa e disturbata.
INDIGNATA
«Non posso vedere per tutta la lezione una scritta simile», spiega affranta. «Stiamo parlando della letteratura dell’America del Sud in anni in cui la parola si usava eccome, e in un’aula universitaria in cui si studia questa materia si suppone ci sia abbastanza intelligenza da vedere quella parola nel suo contesto. E mi creda se ho superato io la cosa non vedo perché non dovrebbe farlo lei», replica il professore (afroamericano) che però non convince l’alunna che lascia la lezione indignata. Da qui si dipana un racconto che regala allo spettatore (il film è disponibile su Prime Video) un’opera brillante, intelligente e spassosa che prende in giro i tanti e troppi stereotipi collegati all’immagine della comunità nera nel cinema, nella letteratura e in televisione.
Assolutamente godibile poi è il resto della trama dove un ottimo Jeffrey Wright tenta di essere accreditato come uno scrittore, un intellettuale che vuole raccontare l’essere umano tout-court e non essere definito e classificato e ghettizzato come uno scrittore black. Stufo anche di dover vedere in tv o leggere libri in cui gli afroamericani vengono descritti e visti soltanto nei ghetti delle grandi metropoli Usa assieme a tutto quel coté (droghe, pistole, tute, canottiere, collane, carceri) che sa di già visto e pure un po’ finto.
Il film è diretto da Cord Jefferson (giornalista, sceneggiatore e autore televisivo al suo debutto come regista al cinema) che ha tratto l’opera dal romanzo Cancellazione di Percival Everett. Un libro che prende a “picconate” la moda della cancel culture (le nuove sensibilità sui linguaggi da adottare e sulle parole da evitare in ogni contesto). In 117 minuti si descrive benissimo questo cortocircuito che sta colpendo il mondo artistico in tutte le sue forme. Come, per esempio, il recente divieto ai minori di 12 anni (se non accompagnati dai genitori) nel Regno Unito della visione di Mary Poppins.
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IPOCRISIA IMPERANTE
Thelonious Ellison (detto Monk in omaggio al grande jazzista americano), il personaggio interpretato da Jeffrey Wright, si ritrova frustato professionalmente da questa ipocrisia imperante che, seppur lastricata di buone intenzioni, sommerge di banalità e castronerie i rapporti umani e professionali. Ipocrisia che, grazie ad un colpo di mano romanzesco, non originale ma efficace, dà forza ad un racconto che inchioda un certo ambiente culturale alle proprie meschinità e canzonando chi ha come mantra la certezza di avere una coscienza pulita. Nonostante questo riesce anche nell’intento di mettere alla berlina lo stesso personaggio principale del film che forse si è un po’ troppo innamorato del suo pensiero e, probabilmente, si è anche abituato a vivere in una torre che se non è d’avorio è comunque molto comoda. Scelta artistica che è uno dei molti pregi di una sceneggiatura (candidata all’Oscar) che non porta avanti solo la propria tesi, ma ha il coraggio e l’intelligenza di far riflettere lo spettatore, mettendolo a confronto con chi, nel film, certe sottigliezze e sensibilità pensa possano essere davvero giuste. Uno dei tanti meriti che rende questo film un piccolo e delizioso capolavoro tutto da gustare.