Intervista

Enrico Vanzina, la lezione: "Politicamente corretto? Ecco cosa penso"

Hoara Borselli

Enrico Vanzina, 72 anni, è fratello del regista Carlo Vanzina e figlio del regista Steno. Forse Enrico è il più prolifico degli sceneggiatori italiani (ha scritto più di 100 sceneggiature). Qualche giorno fa è stato a Cortina d’Ampezzo, dove si è celebrato il quarantesimo anniversario di uno dei film italiani di maggior successo del dopoguerra: Vacanze di Natale. Il prossimo 30 dicembre il film, gloriosissimo, tornerà nelle sale.

Enrico, cosa è successo a Cortina?
«Quarant’anni fa io e mio fratello Carlo abbiamo fatto un film che allora non potevo prevedere lasciasse un segno che avrebbe attraversato i decenni.
È fantastico vedere che le nuove generazioni che non lo hanno visto allora, lo vedono oggi. Questo è il vero successo di un film. Solo il tempo stabilisce che quel film è un film di culto. Non c’è critica, non c’è incasso al botteghino più forte di questo. È il tempo che stabilisce i veri valori di un film. A Cortina mi sono molto emozionato assistendo alle celebrazioni di questo film quarant’anni dopo».

Che sensazione hai provato rivedendolo?
«Mi sono emozionato soprattutto pensando a mio fratello Carlo. Io, da credente, son certo che Carlo ci vedeva e sorrideva. Lui stava lì con noi. Questa celebrazione è soprattutto è per lui».

Se tu in poche parole dovessi riassumere il rapporto che avevate tu e tuo fratello?
«Due fratelli che si sono sempre amati, che hanno lavorato insieme senza mai discutere. Guardavamo nella stessa direzione».

 



 

Secondo te qual è la vera forza dei vostri film?
«La semplicità. L’aver realizzato quello che ci hanno insegnato i nostri maestri della commedia all’italiana: cercare di raccontare qualcosa che rimane, e raccontarla esattamente per quello che è. Osservare la realtà. E quando osservi la realtà senza dare giudizi, senza fare moralismo, e racconti con semplicità un momento della storia o un momento della vita, conoscendo bene quello che tu racconti, se lo fai con sincerità, questo è quello che lascia una traccia indelebile. Non soltanto nella tua vita, ma anche nella vita degli altri».

Secondo te perché anche le ultime generazioni di ragazzi amano i vostri film?
«Le nuove generazioni hanno scelto gli ultimi anni anni ’80 come rifugio ideale per cercare di rivivere un mondo che non gli è stato consegnato. Vorrebbero rivivere quell’epoca in cui ci si amava con romanticismo, c’era il senso dell’amicizia, c’era il dialogo tra le persone, c’erano ancora i genitori che ti dicevano di no. C’erano le regole che sono sparite, che hanno lasciato i ragazzi sgomenti, soli e rassegnati».

Hai usato la parola moralismo. Pensi che oggi ci sia un moralismo troppo radicato in qualunque cosa venga rappresentata?
«Certo, ce n’è moltissimo. Deriva dalle imposizioni dettate dall’alto che bloccano tante cose, che impauriscono. Soprattutto è presente sempre un’ideologia: uno contro l’altro».

Nei vostri film questo non accadeva?
«I nostri film hanno cercato di rappresentare in maniera leggera un sentimento nazionale. Un sentimento che non aveva niente a che vedere con la politica. Era il sentirsi italiani. Era un periodo, appena finiti gli anni ’70, nel quale uscivamo da grandi divisioni politiche del Paese, pesantissime. Violente. Quindi c’era questa voglia di riprovare a essere tutti uniti per cercare un po’ di speranza».

 



 

Enrico, pensi che oggi ti sarebbe permesso di fare gli stessi film, così in contrasto col politicamente corretto dilagante?
«Io penso di sì, perché basta metterci la faccia. Almeno per quanto mi riguarda, visto che sono una persona anziana che dice quello che vuole: mi prendo le mie responsabilità. Credo che il politicamente corretto abbia fatto fare passi avanti a una fetta di popolazione che probabilmente aveva dei pregiudizi, dovuti alla sua cultura, all’educazione, come per esempio i pregiudizi verso la donna, verso le diversità, verso le persone che arrivano da altri paesi, con altre culture».

Quindi tu accogli di buon grado il politicamente corretto?
«Ritengo vada bene finché non diventa una gabbia. Non deve limitare la nostra libertà».

Avete subito una specie di condanna snob per i vostri film a suo tempo, quando uscirono?
«In parte sì e in parte no. I nostri film hanno avuto un grande successo. Contro di noi c’era un pregiudizio ideologico. La commedia è sempre stata vista come un genere minore».

Lo era?
«Se tu pensi che “Guardie e ladri” di mio padre - Steno - è stato scritto con Flaiano e Monicelli ed è andato a vincere a Cannes!... Però in Italia è stato trattato come un filmetto. C’era un grande pregiudizio sulla commedia».

Poi qualcosa è cambiato?
«Da metà degli anni ‘60 i grandi critici francesi rivalutarono la commedia e tante cose si sono messe leggermente a posto. Ma in generale noi viviamo ancora una grande contraddizione: si pensa che se il contenuto è alto, il film è altissimo. Invece molte volte non è così: si può parlare di contenuti altissimi facendo un brutto film. E viceversa. Tu puoi raccontare una cosa di contenuto apparentemente più basso, però lo fai talmente bene che l’opera diventa alta».

Tu sei sempre definito una persona liberale. Secondo te cosa vuol dire oggi essere liberali?
«Essere una persona che mette la barra al centro, che non ha pregiudizi né a destra né a sinistra ma cerca di coinvolgere eventuali alleati nelle sue idee. Nella mia vita privata do un enorme peso al senso di liberalismo. La libertà della persona al centro di tutto».

Tu vieni da una famiglia liberale.
«Io sono nato in una famiglia liberale, del partito liberale. Che era un partito piccolo. Oggi sento dire da tutti: noi siamo liberali! Gli ex fascisti sono liberali, gli ex comunisti sono liberali, gli ex democristiani sono liberali».

Secondo te perché?
«Perché capiscono tutti che quella è la posizione più giusta. Si aggrappano al liberalismo, ma con delle grandi contraddizioni: perché nella realtà loro non sono liberali».

Ravvedi nella politica di oggi un atteggiamento liberale?
«No, assolutamente no. I veri liberali eravamo pochi e siamo rimasti pochi. Infatti contiamo pochissimo».

Tu, Enrico, ti senti più scrittore o cineasta?
«Sono uno che racconta storie, mi sento molto pop, mi interessa tutto quello che è popolare, poi faccio molte cose: suono la musica, faccio le fotografie. Sono uno che racconta. Ho appena scritto 2-3 film, continuo a dirigere commedie. Non solo. Ora vorrei scrivere un giallo».

Secondo te in Italia c’è ancora il patriarcato?
«Un pochino ancora esiste. Siamo un Paese che aveva quel tipo di atteggiamento, quella visione di famiglia. Però è vero che per l’85-90% della popolazione ci siamo liberati di quell’idea. Rimangono però delle sacche di patriarcato, questo sì».

Sei favorevole all’introduzione dell’educazione sentimentale a scuola?
«La generazione di oggi è una generazione che ha un grande vuoto, e qui entra in gioco la famiglia. Tutto quello che si impara, i valori veri, anche la cultura, il modo di essere, nasce sempre dalla famiglia. Poi le scuole possono darci qualcosa in più e sono fondamentali. Ma lo specchio quotidiano che ha un ragazzo è quello del rapporto che c’è in famiglia, il rapporto tra i loro genitori».

Cosa è venuto meno oggi nelle famiglie?
«Credo che il mondo sia cambiato da quando le famiglie non sono più state in grado di dire di no. I “no” sono fondamentali. Poi i ragazzi magari faranno come gli pare, però almeno hanno sentito che ci sono delle regole. Oggii genitori pensano che il modo giusto di educare i figli sia quello di proteggerli su tutto. Non va bene».

Troppo protettivi o troppo distratti?
«C’è un bellissimo racconto di Nataly Kidz Bourne che si chiama “Le piccole virtù”: è un libro meraviglioso, dove l’autrice dice che non bisogna cercare di crescere i nostri figli come siamo noi, non bisogna mettere nella loro testa le nostre ambizioni, bisogna lasciarli uscire dal recinto della famiglia: saranno poi loro a fare i paragoni tra quello che c’è fuori e quello che gli ha insegnato tu».

Credi che oggi ai ragazzi manchino dei buoni modelli da seguire?
«Il problema numero uno dei ragazzi di oggi è che non vogliono uscire dal gruppo, hanno paura di essere giudicati. Nessuno vuole essere diverso dagli altri. Anche come si vestono, come si pettinano, come parlano. C’è una specie di omologazione e questo è il problema grande della globalizzazione».

Ha fatto danni?
«Ha fatto perdere molte identità culturali in tanti Paesi, e i ragazzi ora iniziano a pagarne le conseguenze».

Noi di “Libero” ieri abbiamo titolato la prima pagina del giornale così: “Il Cinepandoro”. Tu cosa ne pensi di questa vicenda che hai investito la Ferragni?
«Non voglio dare giudizi».

Non ti chiediamo giudizi, ma un tuo pensiero rispetto alla vicenda.
«Chi decide di entrare a gamba tesa, così come sono entrati loro nel mondo dei “social”, si espone. Invece se hai quel ruolo devi mantenere ferma la barra dell’etica. Entrare nei social ha delle conseguenze: adesso loro le stanno pagando».

Tu che rapporto hai con i social?
«Io sono entrato due anni fa in Instagram. Cerco di mettere dei contenuti rispetto ai miei film, qualcosa di letteratura, qualcosa per ribadire la nostra identità culturale: se invece il contenuto sei soltanto te stesso, allora possono nascere dei problemi. Anche grandi».