L'artista
Simone Cristicchi, lezione alla sinistra: "Migranti, mi accusano di fascismo?"
Nel 2007 si presenta sul palco di Sanremo e canta l’amore dei matti, quello di Antonio («un pianoforte con un tasto rotto, l’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi») per Margherita, anche lei rinchiusa in un manicomio. Un amore impossibile come la vita dei malati di mente che per quelli normali «sono solo spazzatura». Simone Cristicchi all’inizio ci era sembrato anche lui un po’ matto a irrompere nel regno delle canzonette con un testo così difficile, ma Ti regalerò una rosa è una canzone così potente che infrange tutti i cliché e vince il Festival. Nel 2013 lo stesso Cristicchi porta a teatro uno spettacolo dal titolo Magazzino 18. Parla dell’esodo giuliano-dalmata, una tragedia strappata dai libri di storia che se ne stava confinata in un angolino remoto dell’Italia orientale. Simone prende quella scheggia di storia e ce la conficca nella testa e nel cuore. Da qualche giorno Cristicchi è in libreria con Lo chiederemo agli alberi, (Baldini e Castoldi, 18 euro), un albo illustrato che nasce da una delle sue canzoni che sono insieme spirito e materia, poesia e preghiera. «Con i disegni dell’autore», si legge in copertina. E così, sfogliando il libro si scopre il Cristicchi disegnatore dal tratto leggero ed essenziale ma anche attraverso il segno grafico l’artista riesce a risvegliare sensi sepolti sotto strati di polvere di noncuranza. Non lascia indifferenti.
Da piccolo voleva fare l’archeologo, ma oltre a scrivere, cantare, recitare, sa anche disegnare.
«Avevo abbandonato il disegno a 16 anni, avevo fatto una sorta di indigestione. In quegli anni avevo scoperto la chitarra e cominciai a cantare.
Durante il primo periodo di quarantena mi è tornata la voglia di disegnare, grazie a Elisabetta Sgarbi ho realizzato una mostra anche con i lavori di quando ero ragazzo...».
Il suo maestro è stato Jacovitti, mica poco...
«Sì. Lo adoravo, compravo tutto di lui. Un giorno mi decido, prendo l’elenco del telefono e trovo il suo numero. Jacovitti Benito Franco... Gli telefono, prendo un appuntamento e gli porto i miei disegni. Lui mi rispedisce al mittente. “Non mi serve una fotocopiatrice umana”, mi dice. E così mi ha insegnato a trovare un mio stile che è quello che vedete nel libro».
Impareremo dagli alberi è una canzone che le maestre insegnano ai bambini alle elementari. Dice: “Chiederemo agli alberi come si fa a restare immobili fra temporali e fulmini, invincibili. Risponderanno gli alberi che le radici sono qui...”. Come nasce questa canzone?
«Dopo un lungo periodo di contemplazione e silenzio, tra pellegrinaggi negli eremi francescani e soggiorni selvatici in baite sperdute del Trentino. Ho passato un periodo con le “Sorelle Allodole”, nell’Eremo francescano di Campello sul Clitunno. L’allodola è l’uccellino più amato da San Francesco».
Nel testo ci sono anche loro, le allodole. “Chiederò alle allodole come restare umile..."
«L’allodola vive con poche briciole, eppure canta dall’alba al tramonto...Insegna l’umiltà».
Musica, teatro, disegno. Qual è la sua casa, quella in cui si esprime pienamente?
«Il teatro è la mia isola felice».
Sul palco porta anche la Storia. Ha scritto con Ariele Vincenti Marocchinate, uno spettacolo che racconta delle migliaia di donne stuprate e uccise nella primavera del ’44 dai soldati africani in Ciociaria.
«Credo che il ruolo di un artista sia quello di provocare, risarcire la memoria di chi non ha avuto giustizia. In Marocchinate il protagonista è un pastore ciociaro che ha vissuto sulla propria pelle questa tragedia che è stata rimossa, come quella dell’esodo».
Come ha saputo dei profughi istriani?
«Da piccolo passavo davanti al villaggio giuliano-dalmata di Roma e credevo che giuliano fosse un nome e dalmata un cognome, poi ho letto un libro Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani. Sono andato a Trieste, al Magazzino 18, che allora non era aperto al pubblico. Ho visto con i miei occhi tutti gli oggetti, tutta quella vita strappata agli esuli. Una volta uscito, ho promesso che avrei raccontato, denunciato. Lo faccio da dieci anni, decine di migliaia di persone sono venute a sentire, a vedere, a capire».
Per questa scelta è stato accusato di fascismo.
«Prima di andare in scena ho fatto leggere il copione a diversi storici, a chi ne sa più di me. Una volta avuto il lasciapassare, sono andato avanti per la mia strada. Lo scopo del mio spettacolo non è soffiare sulla brace del conflitto tra fascisti e comunisti, ma raccontare il dramma di quegli italiani che hanno perso la loro terra... Vede, è diverso dai migranti».
Ci spieghi.
«Pensiamo agli emigranti che lasciavano Palermo, Napoli, Milano e cercavano fortuna altrove. Loro sapevano che se fossero tornati avrebbero ritrovato la loro terra. Gli esuli, invece, sono stati sradicati, il loro mondo non tornerà più per una Storia che ha cambiato forma».
C’è qualcosa o qualcuno che l’ha colpita di più?
«La storia di Marinella Filipaz morta di freddo nel campo profughi di Trieste. Sa quando? Nel 1954, quando la guerra era finita da un pezzo e l’Italia si preparava al boom. Sa quante madri si sono impiccate, quanti vecchi sono morti di crepacuore?».
Recentemente ha scatenato molte polemiche anche il suo post contro la maternità surrogata.
«Ho solo riferito quello che ho visto in Kosovo. Ho raccontato di Jelena, una ragazza che è una “roda”, una cicogna. Ha prestato il suo utero a chi non poteva avere figli. Anzi, ha venduto, noleggiato, affittato il proprio utero, perché nel mondo ricco, eterosessuale ed omosessuale, il figlio è un diritto che se non si ottiene per grazia, fortuna e natura, si compra con il danaro. Jelena guadagna 5mila euro. Io le ho viste le ragazze dopo il parto, sono distrutte. Sa da chi ho ricevuto più critiche per aver difeso le donne?»
No.
«Dalle donne».
È stato mai ghettizzato per le sue opinioni? Sente la cappa del politicamente corretto?
«Ho un solo padrone: il mio pubblico. Per questo ho una grande libertà. Penso che l’arte debba risvegliare le coscienze anche andando controcorrente. Molti, invece, sono asserviti al potere. Fabrizio De André diceva che l’artista deve essere la una spina nel fianco del potere».
Cristicchi è quella spina che punge e a volte fa anche male. È la scossa che ci obbliga a guardare dove non vogliamo, che ci mette davanti quell’orrore che preferiamo non vedere. Ma come in «Lo chiederemo agli alberi», sa anche indicarci la strada della bellezza che troppo spesso smarriamo.