La recensione

"Tredici Vite", lo stupendo film di Ron Howard: ti toglie l'aria...

Fabrizio Biasin

È uscito questo film, Tredici vite, che è davvero molto bello. Cioè, per aver tutta questa voglia di scriverne ad agosto inoltrato significa che ne vale davvero la pena. Lo trovate su Prime. Premessa critica: le piattaforme sfornano quotidianamente decine tra serie, docuserie, speciali, miniserie, documinchiate, eccetera. Ebbene, la gran parte di queste clamorose e celebratissime novità sono porcherie di rara bruttezza e cattiva fattura. Tredici vite no, è una gran chicca, il racconto del salvataggio di 12 piccoli minchioni (detto in senso buono) + il loro allenatore, intrappolati nella grotta di Tham Luang, in Thailandia, nel giugno del 2018. Una storia vera, insomma, diretta magistralmente da Ron Howard, uno che ha vinto due Oscar (2002, A Beautiful Mind), mica Pipolo.

Ora, se conoscete il fatto di cronaca sapete pure come va a finire, ma noialtri confidiamo sulla vostra e nostra scarsa memoria ed evitiamo ogni genere di riferimento. Sappiate solo che Howard, in piena epoca di produzioni raffazzonate e bislacche, si permette di mettere insieme un cast con - tra gli altri - Viggo Mortensen e Colin Farrell nei panni di due sommozzatori specializzati nel ficcarsi in grotte anguste e orrende. Nel caso specifico scelgono di dare una mano agli amici thai per ripescare i 13 di cui sopra, sorpresi dal monsone e, quindi, imprigionati nei meandri della montagna.

L'ansia è palpabile, il passare del tempo si mischia con il terrore dei genitori, il rumore della pioggia ti entra in testa, i tentativi di questo e quell'anguillone subacqueo ti tolgono l'ossigeno al punto che ti ritrovi a pensare «colcazzo mi ficcherei in quell'inferno».
Poi ti ricordi che quella è una storia vera e ti viene male a pensare a cosa devono aver provato i 13 là sotto, al buio, al gelo, senza cibo, con una quantità di ossigeno limitata, senza uno straccio di contatto con l'esterno per giorni e giorni e la speranza che qualcuno, prima o poi, venisse in loro soccorso. E qualcuno a un bel punto arriva.

La seconda parte del film è tutta incentrata sul tentativo complicatissimo di portare in salvo i pischelli, perché un conto è ritrovarli, altra cosa è permettergli di rivedere la luce percorrendo a ritroso le centinaia di metri di cunicoli allagati. Insomma, guardatelo, anche perché il resto ce lo mette Howard. E trattasi di un po' di sano paraculismo hollywoodiano, di buoni sentimenti, di volontari da ogni parte del mondo che si mettono a deviare il corso della pioggia, di forze speciali thailandesi che collaborano con bislacchi ma efficacissimi soccorritori inglesi, di prefabbricati improvvisati, di padri e madri disperati, di forza della natura devastante e di banalissimi altri ingredienti che fanno volar via le due ore dell'ambaradan.

Non sappiamo se il segreto è la "storia vera", ma il dato di fatto è che per realizzare questo film non si è usato il bilancino del politicamente corretto, non c'è spazio per questa o quella minoranza da rappresentare a tutti i costi altrimenti qualcuno si incazza, non ci sono bianchi, neri, gialli, donne, uomini, bambini, minotauri messi insieme secondo i recenti codici imposti dalle major, c'è solo una storia vera e certamente un filo romanzata che, però, alla fine ti fa dire «che bel filmone». In fondo, porca miseria, è da sempre lo scopo del cinema.