La testimonianza

Sanremo 2022, Fabrizio Biasin: "Il mio Festival ostaggio del Covid, in una stanza 3x3"

Fabrizio Biasin

Buongiorno, sono in quarantena. Non a casa mia, in una stanza a Sanremo, in Liguria. Da 7 giorni. Non son mica Silvio Pellico, per carità, ma è tutto piuttosto surreale. Ecco, sì, vi racconto la mia grottesca esperienza col covid, per quanto ve ne possa fregare.

Domenica 30 gennaio - Mattino presto, mi presento in un "drive in" aeroportuale di quelli che ti fanno il tampone al momento: costa 50 euro, un furto, ma devo andare a Sanremo per il sacro Festivàl e tocca presentarsi freschi di referto (max 48 ore prima). Mi infilano il mega cotton fioc nella narice, pago, è negativo, sorrido.

Lunedì 31 gennaio - Prendo un agghiacciante treno regionale Milano-Sanremo, praticamente come la classica del ciclismo, ma con gli acari. Mi chiedono il Green Pass, lo mostro assai fiero ("io ho tre dosi di vaccino!"), torno dagli acari, arrivo a Sanremo con soli 40 minuti di ritardo (un record su questa tratta). Appena sbarcato mi dirigo alla zona accrediti e mostro il tampone. E i responsabili della Rai: "Ecco a lei l'accredito, verrà attivato dopo un nuovo tampone". Lo faccio, è negativo, sorrido, buon Festivàl.

Martedì 1 febbraio - Inizia il delirio sanremese, in sala stampa è tutto assai preciso: i pass, le mascherine sempre al loro posto, i controlli. A fine giornata, verso le due del mattino, percepisco dei brividi, ma non quelli di Mahmood e Blanco. Penso: «Sarà la stanchezza».

 

 

Mercoledì 2 febbraio - È una giornata intensa, alle 12 c'è la conferenza con Amadeus e «ammazza che ascolti ha fatto!». Prima però bisogna fare il tampone, ché quello scade ogni 48 ore. Consegno l'accredito, porgo il naso, attendo il responso in mezzo ai colleghi. Dopo poco si palesa una dottoressa: «Venga con me». Si girano tutti. Lo vedo cosa stanno pensando: «Ecco l'appestato». E la dottoressa: «Lei è positivo, ora facciamo il molecolare, nel frattempo si chiuda nel suo domicilio sanremese e aspetti comunicazioni». E io: «No, cazzo, veramente? Qui faccio la fine dell'anno scorso di Irama» (risultò positivo). Non ride nessuno, neppure io, torno nella mia stanza alle spalle del Casinò e mi chiudo dentro, forse per sempre. Dopo due ore arriva la telefonata: «Confermiamo la positività». Faccio il finto tonto: «Azz, posso tornare a casa mia?». «No, l'accredito è sospeso, il Green Pass pure, deve restare chiuso lì. Per il primo tampone di controllo provi lunedì prossimo, se tutto va bene sarà negativo e tornerà a casa».

E in un attimo mi trasformo in un Irama senza voce, ma anche senza vestiti brutti. Forse. Primi pensieri («Porca miseria, sono qui da solo, il frigo è vuoto, la casa è vuota, non conosco nessuno, ho solo il gadget di Michele Bravi - un mazzo di fiori- ma mica posso mangiarlo. Per fortuna nel 2022 ci sono gli straordinari servizi a domicilio. Me la caverò». La mia dolce metà si preoccupa per me, mi organizza la vita, dice "ti vengo a prendere e torniamo a Milano?». «Ma no, che poi ti infetto, pochi giorni e torno». E lei: «Lo diceva anche Irama». Due colleghi molto premurosi, su invito della medesima dolce metà, mi portano una mezza tonnellata di medicine, una pizza ai quattro formaggi, due birre. Seguo Zalone al Festival dalla mia stanza strafatto di antinfiammatori, latticini e luppolo. Ho la febbre e la tosse. Quando sento la Canalis dire «la mia Liguria!» inizio a preoccuparmi. «Ho le allucinazioni...».

Giovedì 3 febbraio  - Mi sveglio con parecchia voglia di caffè. Non c'è. Lavoro dalla stanzetta, tipo Garrone del Libro Cuore. Quelli della spesa si sono dimenticati l'acqua. Dolce metà: «Bevi quella del rubinetto». «Non mi piace». «Non frignare, tuo nonno ha fatto la Campagna di Russia». Mi convince. La febbre c'è ma è poca, la tosse rompe le palle, il saturimetro recita "97", scrivo ancora, Drusilla Foer vestita da Zorro mi strappa una risata. Dico: «Ah ah ah Grande Drusilla». Mi accorgo che sto parlando da solo. Abbasso le tapparelle.

 

 

Venerdì 4 febbraio - Il Festival è un trionfo, ascolti, ospiti, funziona tutto. Io son sempre nella stanza 3 metri per 3. Cammino avanti e indietro come i matti, mi sdraio a terra per studiare prospettive diverse, elaboro piani di fuga («Potrei salire sulla Costa Toscana e chiedere asilo politico a Rovazzi»), scrivo articoli, non ho ancora l'acqua, conto le mutande («Ancora 5 paia, e poi?»), decido di ordinare un hamburger per gustarmi la serata delle cover («Doppia cipolla e cheddar per favore, sa, ho bisogno di forze. Mi raccomando, la cipolla non caramellata, la detesto»), in bocca ho il sapore acido degli antinfiammatori, dopo mezz' ora suona il citofono e questo è il simpatico siparietto che ne consegue: «Buonasera, secondo piano». «Non posso salire, deve scendere lei». «Non posso scendere...». «...Ah! Ma non è che per caso ha il Covid?». «Sì, appunto». «Allora non se ne fa niente». «Ma come, scusi, mi metta 'sto panino in ascensore e arrivederci». «Eh ma io non lo so mica come sono i regolamenti con voi del Covid...». Mi incazzo come una iena maremmana. «Senta, ficchi quel panino nell'ascensore all'istante o la denuncio all'Ausm!». Tossisco. La sigla "Ausm" è inventata ma efficace. «D'accordo, comunque la sua tosse non mi piace per niente». Il rider mi fa la macumba, molla il panino e se ne va. Mentre vado furtivamente verso l'ascensore penso: «Mi trattano come uno che è stato nel reattore di Chernobyl». Azzanno l'hamburger. La cipolla è drammaticamente caramellata, ma almeno sento ancora i gusti.

Sabato 5 febbraio - Apro gli occhi e ho un programma mostruoso: stare tutto il giorno nella stanza 3x3. Penso «Vabé, oggi scrivo un po' e poi c'è il derby, la giornata filerà via che è una meraviglia». Apro la finestra, in lontananza c'è Mentone, respiro, son quasi felice. Alle 20 riaprirò la finestra con un solo pensiero: «Giroud è nato laggiù da qualche parte. Maledetti francesi...». In compenso sono ancora vivo, la tosse è quasi passata e «resisti che dopodomani si torna a casa». Forse.

Domenica 6 febbraio - I colleghi tornano a casa, lo leggo sui social. «Arrivederci Sanremo!». Mi sale un po' di tristezza. Per sdrammatizzare ordino degli Uramaki al ristorante "sapori orientali". C'è il 50% di sconto e sembra tutto un po' posticcio, ma le recensioni sono buone. Ecco, non erano buone, erano finte. Butto giù bocconi a malavoglia mentre Mara Venier limona con Morandi a Domenica In, penso: «Ecco, altre allucinazioni», vedo Vlahovic segnare il primo gol in maglia Juve, mi addormento.

 

 

Lunedì 7 febbraio - È il grande giorno. Mi sveglio con la garra del Pitbull Medel («A noi, tampone!») e corro in farmacia. Fuori, il sole, mi acceca abbastanza, sono passati solo 6 giorni, ma mi sento come il protagonista di Old Boy, uscito all'esterno dopo 15 anni di isolamento forzato. Arrivo in farmacia. «Buongiorno, devo fare il tampone di controllo». «Quando è risultato positivo?» «Mercoledì». Mi guarda come Suor Germana potrebbe guardare un cane bastonato. «Eh...». Ansima. «Eh, cosa?». «No, dico, faccia pure ma...». «Come "ma", mi faccia il tampone». Ovviamente è positivo. «Ma porca tr...». «Guardi, torni giovedì...». «Come giovedì...». E inizia a spiegarmi. «Allora, lei giovedì mi fail tampone, se è positivo niente, torna nel suo appartamento, altrimenti può tornare a casa. Attenzione però, lei è lombardo, qui siamo in Liguria, le Asl non collaborano e, quindi, le anticipo che avrà comunque problemi per riavere il suo Green pass». «Ma allora torno a casa mia a fare il tampone!». «Non può, deve stare qui». «E quindi?». «E quindi questa è l'Italia. Ah, a proposito, si cerchi un medico qui, perché il suo di Milano non può darle i giorni di malattia, sa, le Asl tra loro non comunicano....». Esco dalla farmacia. Mi incammino verso la stanza 3 metri per 3. C'è un bel sole. In fondo si vede il mare. Andrei volentieri a fare una passeggiata, ma non si può. Faccio un respirone. Mi giro. Cammino. Torno nella stanza. «La mia Liguria».