Capito i compagni?

Paolo Rossi, la confessione: "Offendevo Silvio Berlusconi perché mi pagavano"

Filippo Facci

Puoi dire la verità perché sei ubriaco, perché sei sobrio o perché sei vecchio: ma lo status del comico e attore e teatrante Paolo Rossi, nel concedere un'intervista al Corriere del Veneto, poco importa. Ciò che ha detto suona vero e probabile, conta questo, se non altro perché nel dire il falso non aveva nessuna convenienza. Paolo Rossi è un tipo che può fare queste cose, e ogni tanto le fa. In pratica ha detto: il grande esercito della satira, con Silvio Berlusconi, ha fatto un sacco di soldi, il che si è rivelato un errore politico e civile. Ha detto che il vero bersaglio della satira dovrebbe essere non solo il potere (quello tipicamente politico) ma dovremmo essere noi stessi, la natura umana, le nostre miserie e contraddizioni. Ha detto che non c'era neanche tanto da impegnarsi, all'epoca: ripetere le cose che Berlusconi aveva detto pareva sufficiente, così i satiri le ripetevano, le amplificavano, le moltiplicavano, col risultato sostanziale che poi Berlusconi vinceva e vinse le elezioni.

 

 

 

 



SATIRA FACILE - E non è chiaro se questo è perché la satira non gli fece nessun danno o, più probabilmente, perché gli diede proprio una mano. Vediamo i virgolettati. Titolo: «Con Berlusconi abbiamo fatto i soldi. Ma è stato un errore». Estratti: «Bisogna ammettere anche gli errori. La satira degli anni d'oro era una satira molto energica e creativa, ma sbagliò bersaglio. Il bersaglio è la natura umana, siamo noi, non è quel finto conforto che dà gridare "il re è nudo" e lasciare le cose così come sono... Quanti soldi abbiamo fatto con Berlusconi? Ed era anche facile, non dovevamo neanche scrivere le battute: bastava ripetere le sue! Nominavi il nome e la gente rideva, rideva... però il problema era che poi lo votavano». Ci basta. Non c'è niente di nuovo, ma la novità è che a dirlo sia uno di loro. Detto da altre posizioni, da destra o dagli ambienti berlusconiani, restava vero: ma suonava come una difesa d'ufficio, impotente e un po' buttata lì, un modo per limitare i danni. Peraltro, forse e appunto, non c'erano neppure i danni. E sono loro, è Paolo Rossi a dirlo: ubriaco, sobrio, vecchio o più banalmente disilluso e lucidissimo prima di portare sul palcoscenico un «Amleto» di Shakespeare in versione ovviamente rivisitata, che a quasi 70 anni, un po' come a 20, ti viene voglia di fare le cose serie. Che poi, dal 1994 in poi, dalla celeberrima discesa in campo, le mire dei satiri erano serissime. Comincia proprio quell'anno la prima fioritura per una neotrasversalità che si cementò in una visione della satira e della politica e del giornalismo, in perfetta scia con un mercato recettivo e collaudato. Sabina Guzzanti, Michele Santoro e Marco Travaglio: facciamo solo tre nomi per fermarci a qualche primo e cercato equivoco: di fatto la verve si fece meno comica e più comiziante, tribunizia, requisitoria, ogni delirio fu travestito da missione salvifica e ogni disturbo narcisistico da sindrome da persecuzione, violazione della libertà d'espressione.

 

 

 

 

 



TUTTI SCHIERATI - Il cemento, manco a dirlo, fu l'antiberlusconismo, genere che tirò subito e che offrì a ciascuno tornaconti diversi: i migliori andavano divisi dai peggiori, la libertà dal regime, la democrazia dal Cavaliere, la magistratura dalla politica, di seguito alcuni magistrati da altri, e altri politici da altri ancora. Ogni accordo o dialogo saranno chiamati restaurazione o inciucio, e sarà innegabile il martirio, ennesimo il golpe: a denunciarlo saranno - con libri, dvd, show e magari la pretesa di un programma in Rai - giornalisti e magistrati e politici e scrittori e comici che si rimescolarono in un mestiere indistinto, ciascuno coprendosi col mestiere dell'altro ma vestendone perlopiù i privilegi, declinandone le responsabilità. Una Sabina Guzzanti ormai priva di leggiadria fingeva ancora di credere che «tocca ai comici dire le cose serie» senza i limiti di chi pure ufficialmente era chiamato a dirle, a scriverle. Marco Travaglio coniugò il mestiere di giornalista dotato di fonti univoche - singoli magistrati - e lo declinò in forme autocentrate e sbeffeggianti i difetti fisici altrui, al punto da reclamare il diritto di satira anziché di critica: con la pretesa, in seguito, di continuare a fiancheggiare singoli uomini o movimenti. Ma va detto che all'epoca Paolo Rossi era già defilato, non sappiamo se perché fosse indisposto o inadatto: con l'apparizione di Beppe Grillo lui non c'era già più, o perlomeno era poco in vista. Non c'era a Piazza Navona (2008) quando Grillo in diretta telefonica definì il capo dello Stato Giorgio Napolitano «un Morfeo che sonnecchia ma poi firma provvedimenti per la Banda dei Quattro», e sproloquiava contro il Pdl e contro il «Pd meno l» mentre Sabina Guzzanti diceva che immaginava il papa all'inferno nelle mani di qualche diavolo gay. Ufficialmente era satira, anche se equivaleva a un'immunità giudiziaria per autoproclamazione, con Dario Fo che opponeva una certa «aria di fascismo» e la Repubblica che dava l'altolà scrivendo che «La satira non si processa». E andava anche bene, la satira non si doveva processare: ma forse non era più satira. Paolo Rossi in effetti non c'era più. Ma a quanto pare aveva guadagnato abbastanza. Gli restava Shakespeare, quasi fosse un ripiego.