Tv e dintorni

Da Masterchef agli spot, nasce il "griffismo culinario"

Andrea Tempestini

La prima puntata della nuova edizione di Masterchef ha registrato ascolti altissimi: con un milione e 240 mila spettatori, la serata di giovedì scorso ha ottenuto il miglior risultato di sempre per un episodio dedicato esclusivamente alle selezioni dei concorrenti. Ancora più rilevante il risultato sui social network: l'hashtag #MasterChefIt è stato il più utilizzato nella giornata con 30.700 tweet riferiti al programma. In effetti Masterchef - al di là degli ascolti - ha avuto in questi anni un'enorme influenza sul pubblico televisivo. Arrivato sui nostri schermi nel 2011 e ormai giunto alla quinta edizione, ha contribuito prepotentemente a diffondere e trasformare la passione per la cucina in mania che è divenuta un fenomeno sociale, con ricadute sulla vita quotidiana di tutti noi. Se le persone non hanno quasi più paura di sputare in faccia, per dire, a un vero giudice, gli chef-giudici sono divenuti delle autorità quasi sacre oltre che delle vere star, per questo richieste anche dalla pubblicità. Carlo Cracco ha prestato il suo sguardo più sensuale alle patatine in sacchetto. Bruno Barbieri pubblicizza robiola e passata di pomodori datterini, ma è comparso anche negli spot di una celebre azienda produttrice di forni e lavelli, e in quelli di un noto amaro. Joe Bastianich si è visto sui cartelloni di un'azienda automobilistica e nello spot della pastasfoglia, mentre il nuovo acquisto Antonino Cannavacciuolo ha reclamizzato un gorgonzola ed è pure apparso sull'etichetta di una storica birra italiana, per un'edizione speciale. Secondo la recente ricerca FoodFWD realizzata da Mec & GroupM, i giudici di Masterchef sono i migliori rappresentanti del cosiddetto “Pop Food”. Cioè un “territorio” in cui “il cibo si contamina con il mondo della moda e del design, mettendosi in vetrina e spettacolarizzandosi attraverso i talent show”. Secondo questo studio, Cracco e soci sono i testimonial perfetti per lanciare oggi un prodotto legato alla cucina. Questo legame “pop” fra la moda e il cibo è all'origine di una tendenza che potremmo chiamare “griffismo culinario”. Cioè il desiderio di trasformare un marchio alimentare in una griffe dall'evocatività potente, per il cliente, come lo sono le griffe di altri settori commerciali, dalle auto alla lingerie. Una Ferrari non è soltanto un'auto che si muove su quattro ruote, un completino Victoria's Secret non sono soltanto un reggiseno per tenere su le tette e uno slip per riparare la vagina. Possiedono qualcosa in più. È questo il motivo per il quale, ad un certo punto della nostra storia di consumatori, abbiamo cominciato a chiamare i prodotti col loro marchio: per differenziarli, riconoscendoli come superiori, dalla massa degli altri. È la figura retorica della sineddoche, che ci fa dire, pavoneggiandoci: "Vuoi farti un bagno con me nella mia Jacuzzi?", "Spero ti piaccia questo Rolex che ti ho preso per il tuo compleanno" e così via. Un tempo il prodotto era solo prodotto: il lardo. Poi, ha iniziato ad essere identificato dalla provenienza (il lardo di Colonnata) o dal marchio (il lardo pancettato Fiorucci). È stato col passaggio alla produzione industriale che il marchio ha vissuto la sua epifania. Nella guerra commerciale, la pubblicità, prima cartacea e radiofonica, poi televisiva, induceva le casalinghe che si recavano a far la spesa di riconoscere immediatamente un prodotto pubblicizzato a discapito di quelli anonimi in quanto non reclamizzati. Ora siamo alla griffe. E la differenza fondamentale col passato è che il produttore, appropriandosi di un tormentone retorico tutto politico, "ci mette la faccia". Ce la mette proprio letteralmente, la stampa sulle confezioni, insieme al cognome che diventa griffe, perché è lui stesso il testimonial della sua griffe. In principio era Maria Rosa. Ve la ricordate? Effigie disegnata del marchio di lieviti alimentari Bertolini, era una bimba bionda che passava le giornate a impastare torte, pizze, ciambelloni eccetera. Dopo, sono arrivati i testimonial in carne ed ossa, sempre femminili e sempre scollegati dalla produzione (cioè non erano le produttrici): da Virna Lisi col dentifricio Chlorodont che la dotava di una bocca con cui poteva dire ciò che voleva fino all'indimenticabile Kaori del formaggio spalmabile Philadelphia, il testimonial è sempre stato donna. Poi, sono arrivati la questione della difesa del corpo della donna dalla pubblicità (complici le battaglie della sinistra, esasperate negli ultimi anni dal Pd e dalla Boldrini) e il griffismo culinario, e il risultato non è stato che il corpo umano fosse completamente cancellato dagli spot, ma che al corpo della donna si è sostituito... Quello dell'uomo! Che, in più, era il produttore. I tortellini di Giovanni Rana, lo stracchino di Nonno Nanni (era Giovanni Lazzarin detto Nanni, il fondatore della Latteria Montello nel 1947), il Tony della Macelleria Tonazzo, che addirittura identifica l'hamburger, non una persona di nome Tony, le uova di Paolo Parisi, la pasta Girolomoni, col viso di Gino Girolomoni, venuto a mancare nel 2012, stampato sopra le confezioni di penne rigate, la linea di prodotti per pasticceria di Luca Montersino, le salse dello chef Mario Batali, le farine di Selezione Casillo col viso del maestro pizzaiolo Michele Aucelli: gli esempi sono infiniti. Fate un giro nei supermercati, normali come luxury, vedrete un mucchio di visi maschili che vi guardano dalle confezioni. E chiedetevi con noi: allora togliere il corpo della donna dalla pubblicità era solo uno sporco trucco per infilarci il vostro, uomini? E soprattutto, con queste belle facce adesso noi femminucce cosa ci facciamo? di Gemma Gaetani