La fiera delle banalità
Beppe Severgnini, il ritratto dell'uomo che campa sputtanando gli "italians"
Talvolta improntare il proprio pensiero all’irrilevanza più totale può portare dei vantaggi. Quindi può capitare che anche la lettura dei libri e degli articoli di Beppe Severgnini abbia dei lati positivi. Per esempio, quando vi trovate in ascensore con uno sconosciuto avete esaurito le banalità meteorologiche, potete estrarre dal cilindro una frase dell’ottimo Beppe. Una a caso, eh. Tanto non c’è pericolo che esprimano altro che luoghi comuni o plateali ovvietà. Se ne trovano parecchie pure su internet, in quei siti che collezionano citazioni casomai agli autori dei Baci Perugina mancassero idee. Perle di insignificanza, bigiotteria del pensiero. Tipo: «I professori cattivi, quasi sempre, sono cattivi professori». Oppure: «Occorre tempo per capire che gli uomini americani, prima di essere americani, sono umani». Non sappiamo se queste sentenze immortali siano effettivamente imputabili a Severgnini, poiché appunto le abbiamo pescate dalla Rete. Ma non importa: potrebbero essere anche del pagliaccio Baraldi, tanto è uguale. Proprio qui sta la bravura del nostro editorialista dell’ovvio, l’opinionista senza opinioni. Egli riesce a produrre un vuoto in cui riecheggiano i pregiudizi di ben due continenti. Non è mica cosa da tutti esser capaci di confermare nelle loro convinzioni stereotipate sull’Italia gli americani, gli inglesi e persino gli italiani. Beh, Beppe lo fa. E grazie a questo talento sforna un bestseller via l’altro, è una firma di pregio del Corriere della Sera e scrive addirittura sul New York Times. Di che scrive, solitamente? Degli italiani e dei loro difetti.La sua tesi di fondo - rimbalza in ogni articolo - è che siamo un popolo da operetta. Teatrali, cialtroni, casinisti, mezzi disonesti. Ma, alla fine dei conti, abbastanza simpatici. Un po’ come gli scimpanzè allo zoo: carini da vedere, meno da invitare a cena. Sentite cosa sentenziò lo zazzeruto cronista qualche anno fa, commentando i propositi di Mario Monti che voleva «cambiare gli italiani». Disse che «ci hanno danneggiato l’intelligenza (asfissiante), l’inaffidabilità, l’individualismo, l’ideologia e l’inciucio. Ci hanno aiutato la gentilezza, la generosità, la grinta, il gusto e il genio». In soldoni: abbiamo tanti difetti, ma anche delle qualità, che però non mettiamo a frutto. Per commentare usando una tipica espressione italiana, delizia da antropologi: grazie al cazzo. Avevamo proprio bisogno di un fine polemista con un mandolino al posto del cuore per venirci a spiegare l’italico carattere. Ma allora perché spendere tanto livore per nulla? Perché dedicarsi a Severgnini piuttosto che, per dire, alla pesca d’altura o alla pastorizia? Il motivo è che, nell’universo dell’ottimo Beppe, tutti gli italiani sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Nello specifico, gli italiani di centrodestra. In essi i difetti italioti si fanno prassi. L’ossessione per la «bella figura» (a cui il nostro ha dedicato un libro e molti editoriali in patria e all’estero) che porta Francesco Schettino a provocare il disastro della Concordia, esplode in tutta la sua potenza nella persona di Silvio Berlusconi. Il quale è una specie di archetipo del «virus italico» che alligna in ciascuno di noi. «Siamo tutti Silvio», ha scritto Severgnini sul New York Times tempo fa. E quella parte di Silvio in noi è ovviamente un male da estirpare. «Alcuni Paesi importanti hanno eletto leader teatrali», ha scritto il nostro. «Ma nessuno ha eletto (tre volte!) un personaggio come Silvio Berlusconi, vero detonatore di stereotipi». Ah, ecco spiegato perché ce l’ha con Silvio: a furia di far detonare stereotipi, gli ruba il mestiere. Che non si capisce bene quale sia, ma senz’altro è redditizio. Il male dell’Italia, ben rappresentato dal Cav, si sta manifestando anche in questi giorni, non ad Arcore ma nelle periferie. Nel suo ultimo articolo sul New York Times, Severgnini ha inteso spiegare agli americani quanto sta accadendo a Tor Sapienza e dintorni, il motivo per cui la tensione fra italiani ed immigrati cresce fino ad ardere. Nell’articolo, come da contratto, non ha spiegato un bel niente: né i veri disagi che covano sotto la rabbia né il problema degli immigrati. Però è riuscito a dire che gli italiani sono al primo posto nell’«Indice dell’ignoranza» (statistica riferita a 14 nazioni) per quanto riguarda il tema immigrazione. Il motivo per cui i «nuovi arrivati» si scontrano con gli indigeni «per lo più della classe operaia» sta nel fatto che questi ultimi sono ignoranti. E quindi anche un poco razzisti, poiché non sanno che la percentuale di stranieri, qui da noi, è minore rispetto a quella di Germania, Spagna e Francia. Giusto: se un clandestino ti occupa la casa devi dargli il benvenuto, perché a Berlino di immigrati ce ne sono di più (dato tutto da dimostrare, se proprio vogliamo fare i fiscali). Come se non bastasse, Beppe aggiunge che ci sono partiti senza scrupoli pronti a cavalcare l’ira degli ignoranti operai. Ad esempio la Lega che, fallito il progetto secessionista, è divenuta nazionalista e si ispira a «movimenti xenofobi» come il Front National francese e lo Ukip britannico (che sono due soggetti diversissimi, ma nella fiera dalle superficialità di Severgnini i contorni sfumano come la sua frangia). Matteo Salvini, poi, ha visitato un campo rom a Bologna «solo per farsi assaltare l’automobile dagli estremisti» (di che parte politica non è dato sapere). Saranno contenti i lettori americani. Si faranno un sorriso, a colazione, pensando a questi buffi italiani. Ignoranti, sì, ma perché madre natura li ha voluti veraci. Razzisti, certo, ma per via del fuoco latino che arde nelle loro vene. Poi berranno qualche sorso caldo dalla loro coffee mug. Magari, se di orientamento liberal, spenderanno due sospiri rassegnati ripensando a Silvio Berlusconi e ai fascioleghisti. E di nuovo rideranno degli italiani. Meravigliandosi che abbiano così poca autostima da scegliersi come ufficio stampa un signore che per farsi adottare dagli inglesi scimmiotta Mister Bean. Senza averne la profondità di pensiero. di Francesco Borgonovo