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Retinite pigmentosa, c'è speranza per combatterla

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Un gruppo di ricercatori, dell'Università dell'Oklahoma, ha ottenuto risultati incoraggianti, sperimentando un nuovo metodo terapeutico

Tatiana Necchi
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di Carlotta Clerici - Intervenire sulle malattie ereditarie, correggendo gli errori del codice genetico è per la scienza una scommessa ancora aperta. In caso di retinite pigmentosa però, la speranza di una buona puntata arriva dall'Università dell'Oklahoma dove un gruppo di ricercatori ha appena ottenuto dei risultati incoraggianti, sperimentando un metodo terapeutico che potrebbe arrestare la malattia prima che il malato perda la vista. Secondo lo studio, pubblicato sulle pagine del Journal of the Federation of American Societies for Experimental Biology (FASEB), gli scienziati dell'Università dell'Oklahoma, in collaborazione con gli atenei di Cleveland e di Buffalo, sono riusciti ad intervenire sul codice genetico dei topi da laboratorio afflitti da retinite pigmentosa, riuscendo a modificare e a bloccare il processo degenerativo della malattia grazie all'utilizzo di particolari “capsule” per la somministrazione delle cure. “Le terapie – spiega il capo delle ricerche Muna Naash – sono state iniettate direttamente nell'occhio delle cavie e trasportate velocemente, in soli 15 minuti, grazie a delle capsule curative che raggiungono e agiscono direttamente sui fotorecettori della retina, ossia sulle cellule sensibili alla luce (circa 131 milioni) situate nella parte inferiore dell'occhio, riparandole e prevenendo totalmente la degenerazione dei coni, le cellule responsabili della visione dei colori”. Una tecnica molto sofisticata, basata sull'utilizzo del DNA ricombinante, ossia nell'introduzione di geni selezionati in un corpo ospite, capaci di conferire nuove caratteristiche alle cellule riceventi, chiamate appunto ricombinanti. Grazie all'ingegneria genetica, infatti, i ricercatori americani sono riusciti ad alterare la sequenza del gene originale e di produrne uno più adatto alla risposta di un problema specifico, in questo caso alla prevedibile degenerazione visiva a cui condanna la retinite pigmentosa. La terapia, al momento, è stata sperimentata soltanto sugli animali ma i ricercatori americani non escludono che questa nuova tecnica possa dare dei risultati validi e senza complicazioni anche nella sperimentazione umana. Sensibile alla luce come una pellicola fotografica, la retina è l'organo che ci permette di catturare le immagini nello spazio e di ritrasmetterle ricomposte, attraverso il nervo ottico, nel cervello. Tra le degenerazioni visive che ne danneggiano il funzionamento, la retinite pigmentosa è ancora tra le cause principali di cecità nel mondo e solo in Italia affligge circa 30mila persone. Nel nostro paese poi, dove non mancano i matrimoni tra i consanguinei, l'incidenza di questa patologia ereditaria risulta ancora più elevata: al punto da farla annoverare, dal 1985, tra le malattie sociali della penisola. La patologia, di cui esistono numerose varianti cliniche per parametri morfologici e funzionali – sono circa 800 quelle individuate fino a questo momento – è spesso associata ad altre anomalie di carattere sistemico come alla Sindrome di Usher, caratterizzata dai danni congeniti del sistema uditivo, neurosensoriale e disturbo della parola e alla Sindrome di Lawrence-Moon-Bardet-Biedl, associata ad obesità, ritardo mentale e ipogonadismo. “I dati dello studio americano - commenta il dottor Fulvio Carraro, direttore dell'Unità operativa di Oftalmologia di Empoli - sono molto incoraggianti per farci sperare, in futuro, di poter prevenire la cecità in molti casi di retinite pigmentosa.  Per questa malattia, al momento, siamo solo in grado di contrastare le complicanze ma non di bloccarne gli effetti”.

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