Demenza

Giornata Mondiale Alzheimer 2024, Rossini dell'IRCSS San Raffaele Roma: "Bisogna identificare i soggetti a rischio per cambiare il corso delle cure"

A causa del rapido invecchiamento della popolazione in Italia, si prevede che il numero di persone affette da demenza quasi triplicherà entro il 2050, passando da 1,2 milioni nel 2019 a oltre 3 milioni, con costi stimati diretti e indiretti 23 miliardi a più di 60 miliardi di euro. In Italia ci sono circa 750.000 persone con declino cognitivo lieve, persone con elevatissimo rischio di ammalarsi di Alzheimer. Metà di queste è di fatto già ammalata di una forma molto iniziale di demenza che si svilupperà in modo evidente nei successivi 3-5 anni mentre la rimanente metà rimarrà autonoma e procederà secondo le normali curve di invecchiamento fisiologico. 

Il Prof. Paolo M. Rossini, Responsabile del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS San Raffaele Roma, spiega che la demenza, come altre malattia, possa essere considerata il risultato di una battaglia continua tra fattori di rischio e fattori di resilienza e sottolinea l’importanza della diagnosi precoce. 
“Occorre tenere presente”, sottolinea il neurologo, che esiste una forma prodromica di demenza che viene definita Mild Cognitive Impairment (Disturbo Cognitivo Lieve o MCI degli anglosassoni). Questi soggetti sono sostanzialmente efficienti ed efficaci da un punto di vista cognitivo, tranne avere uno a più test neuropsicologici alterati. Questa condizione comporta un rischio parecchie volte più elevato della popolazione di eguale sesso/età/scolarità visto che circa il 40% di essa si ammala di una forma di demenza vera e propria nei 3 anni successivi alla diagnosi di MCI”. 

L’identificazione all’interno della popolazione di età superiore ai 60 anni di soggetti con disturbo cognitivo lieve in fase prodromica di demenza ovvero di quelle persone che, pur essendo ancora sostanzialmente sane, hanno un elevatissimo rischio di sviluppare demenza, rappresenta una delle urgenze maggiori in tema di politiche sanitarie. “Si tratta, infatti, di soggetti di fatto già ammalati di una forma molto iniziale di malattia, ma che ignorano di esserlo e che sono ancora perfettamente performanti nelle attività del vivere quotidiano/professionale/sociale/affettivo: con l’aiuto di biomarcatori di vario tipo (PET, EEG, Liquor, Genetica, tests neuropsicologici etc.) e dell’intelligenza artificiale i medici stanno mettendo a punto metodi per scovare per tempo questi individui, prima cioè che manifestino i sintomi irreversibili e progressivi della patologia. 

Questo potrebbe cambiare il corso delle cure, una volta che si rendessero disponibili dei nuovi farmaci contro l’Alzheimer, la forma più diffusa di demenza, ed anche permettere un intervento mirato e precocissimo con i farmaci attualmente disponibili e sui fattori di rischio/protezione che sono già noti.  Arrivare prima significa intervenire su uno scenario in cui molta parte della ‘riserva neurale’ (cioè quella dote di neuroni e di sinapsi che ognuno di noi possiede ed a cui si può attingere per vicariare –almeno in parte- la funzione svolta da neuroni e sinapsi distrutti dalla malattia) è ancora disponibile e quindi ottenere risultati decisamente superiori nella cura non solo dei sintomi, ma della evoluzione della malattia” conclude l’esperto. 

È proprio a tale scopo che è sono in corso due studi di respiro nazionale (Interceptor che mette a confronto le capacità di diagnosi precoce, ed il rapporto costi/benefici di diversi biomarcatori in una popolazione di oltre 300 soggetti con MCI che è terminato alla fine del 2023 ed i cui risultati sono in corso di elaborazione da parte dell’istituto superiore di Sanità) ed uno studio europeo su intelligenza artificiale e demenze (AI-MIND) finanziato dalla Commissione Europea con circa 14 milioni di Euro ed in cui l’Italia vanta ben 4 unità operative.