La pubblicazione

Joe Biden, demenza o diagnosi mediatica? Il rischio di distorcere la realtà scientifica

Il dibattito sullo stato di salute del Presidente USA Biden sta interessando l’opinione pubblica di tutto il mondo che tende sempre di più a leggere le sue decisioni non sulla base della sua strategia politica (giusta o sbagliata che sia), ma sulla base della sua capacità di intendere e di volere. 

Si sta infatti sdoganando nell’immaginario collettivo la totale sovrapposizione tra l’idea di ‘vecchiaia’ ed un inesorabile ‘declino cognitivo patologico’. Ma siamo dinanzi ad un quadro clinico oggettivo e misurato o trattasi di una pericolosa diagnosi mediatica? A chiarire meglio il concetto è oggi lo studio “Challenges to identifying risk versus protective factors in Alzheimer's disease” (Sfide nell’identificazione  dei fattori di rischio e di protezione nella malattia di Alzheimer) pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Medicine a firma del team di ricerca del Progetto nazionale Interceptor coordinato, attraverso il Policlinico Gemelli, dal Prof. Paolo Maria Rossini, Responsabile del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS San Raffaele.

“Sappiamo che il cervello invecchiando perde alcune capacità come il resto degli organi del corpo umano, ma ne conserva moltissime altre” commenta Rossini, “è  un dato confermato da tutti gli studi che la stragrande maggioranza dei 70enni ed 80enni di oggi è perfettamente integra sul piano cognitivo;  una discussione che va ad inserirsi perfettamente nel dibattito scientifico attualmente in corso tra coloro che sostengono una diagnosi ‘biologica’ di demenza rispetto a coloro che sostengono che tale diagnosi debba essere sostanzialmente ‘clinica’ cioè sostenuta da sintomi clinicamente evidenti che vanno ad affiancare i dati dei biomarcatori. Pertanto si osservano una serie di distorsioni della realtà scientifica che il mondo delle neuroscienze non può e non deve lasciare passare senza un commento e qualche importante puntualizzazione”. 

Il termine biomarcatore si riferisce in linea generale ad un test (di laboratorio come un esame di sangue o di altro tipo) che permette di predire se un soggetto svilupperà una determinata malattia in totale assenza di sintomi della medesima e molto tempo prima che essa si manifesti sul piano clinico. Fare tuttavia una diagnosi di rischio esclusivamente sulla base di uno o più biomarcatori comporta essa stessa il rischio di fare una previsione sbagliata (il termine tecnico sarebbe falso positivo cioè qualcuno definito in fase iniziale di malattia che però non svilupperà mai la malattia medesima nel corso della sua vita).

“Pur in presenza di uno o più biomarcatori alterati infatti” puntualizza il neurologo, “una consistente fetta di popolazione a rischio non svilupperà mai la demenza anche nell’arco di anni ed anni di controlli neuropsicologici con test specifici che misurano i vari domini cognitivi (follow-up). Insomma si viene ad attuare una condizione in cui è molto probabile una malattia ‘biologica’, ma in assenza di sintomi”.

Questa situazione, come ampiamente dettagliato nello studio, si concretizza molto presumibilmente perché in questi soggetti sono abbondantemente presenti fattori di resilienza del cervello sia di tipo genetico (es. presenza di tantissimi neuroni e circuiti nervosi silenti dalla nascita che rappresentano altrettante riserve a cui il cervello attinge per vicariare le funzioni colpite da processi di neurodegenerazione), che derivanti da una ricca attività cognitiva e da uno  stile di vita che proteggono le strutture nervose non aggredite (es. attività fisica quotidiana ed attività cognitiva, assenza di sovrappeso eccessivo solo per portare degli esempi). Si arriva quindi alla conclusione di dover guardare a questa terribile malattia (che oramai tutti conoscono come Alzheimer, mentre in realtà esistono vari tipi di demenza) come ad una bilancia in cui si contrappongono i fattori di rischio da una parte e quelli di resilienza/protezione dall’altra. Se ad un certo punto i primi prevalgono, la malattia si esprime clinicamente in tutta la sua devastante progressione, se invece prevalgono i secondi la malattia non si evidenzierà mai.

“Pertanto” conclude Rossini, “senza voler entrare nei contenuti del dibattito sulla Presidenza americana, crediamo si debba chiarire anzitutto che l’assimilazione tra i disturbi di movimento, tra la dimenticanza dei nomi, e le capacità cognitive è totalmente errata in assenza di esami strumentali e di test neuropsicologici che accertino il contrario”.

AUTORI DELLA PUBBLICAZIONE
Chiara Pappalettera1,2, Claudia Carrarini1,12, Stefano Cappa4*, Naike Caraglia3*, Maria Cotelli5*, Camillo Marra3,6*, Daniela Perani7*, Alberto Redolfi8*, Patrizia Spadin9*, Fabrizio Tagliavini10*, Nicola Vanacore11*, Fabrizio Vecchio1,2 and Paolo M. Rossini1**
1. Department of Neuroscience and Neurorehabilitation, IRCCS San Raffaele Roma, Rome, 00166, Italy
2. Department of Theoretical and Applied Sciences, eCampus University, Novedrate, 22060, Italy
3. Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Rome, 00168, Italy
4. University Institute of Advanced Studies, Pavia, 27100, Italy
5. IRCCS Istituto Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli, Brescia, Italy
6. Department of Psychology, Catholic University of Sacred Heart, Milan, Italy
7. Vita-Salute San Raffaele University, Milan, Italy
8. Laboratory of Neuroinformatics, IRCCS Istituto Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli, Brescia, Italy
9. Associazione Italiana Malattia di Alzheimer - AIMA, Italy
10. Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta, Milan, Italy
11. National Center for Disease Prevention and Health Promotion, National Institute of Health, Rome, Italy
12. Department of Neuroscience, Catholic University of Sacred Heart, Rome, Italy
*Coordination Team of the Interceptor Project
** National Coordinator of the Interceptor Project