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Giovanna Pedretti e il bullismo digitale: serve un codice per evitare tragedie

Gianluigi Paragone

Il guaio è che ci siamo già dimenticati di Alberto Re. Era un impresario di Agrigento, un imprenditore che organizzava manifestazioni ed eventi; uno di questi gli andò particolarmente male: sala vuota, credibilità azzerata sotto la slavina di commenti di derisione e sfottò su un post che immortalava il colossale flop. Non resse e si suicidò sparandosi un colpo di pistola. Giovanna Pedretti non ha retto allo stritolamento di un gioco dentro il quale era finita presumibilmente anche lei stessa: usare i social come promozione del locale facendo leva sul moltiplicatore dei buoni sentimenti. Fino a che il compagno della Lucarelli non sente puzza di bruciato e lei, la giudice inflessibile, sbatte i finti buoni dalle stelle alle stalle. Il gioco però non si ferma e diventa tragedia con la caccia al furbetto vestito da angelo. Dev’essere un genere che tira se, dall’affaire Ferragni, ci siamo ritrovati con tante storie da svelare oltre le belle apparenze. Le sentenze arrivano seduta stante, come le palette che si alzano nelle sfide di ballo o di canto o di quant’altro: siamo dentro un grande talent, un grande gioco, uno schema dove a tutti si dà la possibilità di promuovere o bocciare, di essere giudici e censori delle debolezze o delle colpe altrui. Fintanto che poi non vieni messo tu sotto accusa perché nulla si perdona in questa piazza social che gira a mille all’ora.

Selvaggia Lucarelli è parte della Sorveglianza (nel senso della Zuboff), ha un proprio “profil-io” costruito alzando palette. È questo che le chiedono di fare ed è questo che lei fa: giudica. Non significa che sia sbagliato in sé: nel caso della Ferragni ha compiuto un lavoro di inchiesta giornalistica. Sbaglia (ma non se ne rende conto) quando svela la catena di montaggio, ovvero lavorare sull’algoritmo per non fare cadere l’interazione. A quel punto, la ristoratrice diventa come la Ferragni perché è la quantità di interazioni che alimenta il “profil-io”. Come in tv è la polemica, la critica, il giudizio acido che la tiene in piedi come giudice: il copione sostituisce la realtà. Non importa perché proprio tu sia il giudice, nel gioco conta che qualcuno faccia il giudice e sia cattivo.

 

 

Ogni parola, ogni immagine, ogni azione subirà nella vita social un giudizio, un like o una bocciatura. La gig economy si muove sul giudizio che si dà a chi ti consegna il cibo, se è stato puntuale; e poco importa se fuori piove o c’è traffico. Si muore per consegnare velocemente e non perdere il “ranking” nelle ore di maggior richiesta. Giovanna e Alberto e tanti altri non hanno retto lo stress di questa vita parallela dove ogni notifica va osservata per compiacersi o per difendersi. Qualcuno non ce la fa perché la sfida è asimmetrica: la Lucarelli poteva reggere il confronto con la Ferragni (anzi ha beneficiato della sfida acquisendo followers) ma la Pedretti no. Questa è una storia di bullismo digitale. Di gogna selvaggia, appunto.