Allarme macchine
Buttafuoco: "L'intelligenza artificiale non ha regole né teme Dio"
Fa tenerezza e fa ridere che Commissione europea, Consiglio dell’Unione europea e Parlamento – a Strasburgo – abbiano fatto la legge sull’Intelligenza artificiale ancora prima di fare i conti sulla nuova forma del mondo che ne deriva. Trentasei ore di trattative tra politici, giuristi, funzionari e ingegneri per sorvolare sulla macchina, e di questo si tratta, che si fa uomo. L’Europa, si sa, predilige la regolamentazione all’innovazione. Ma non è poi un diritto d’antenna, la concessione di un Sali & Tabacchi o un copyright il fatto duro e importante di un cambiamento d’epoca dove mai come oggi l’umanità è in ritardo di cento anni rispetto alle sue stesse invenzioni. Dispiegate tutte nello sciame digitale, le macchine – di questo si tratta – sono a tutti gli effetti senzienti. Nell’interagire con loro, con le macchine, il rapporto tra materia organica e byte è impari. Già Pikachu, il Pokemon giapponese di prima generazione, se trascurato o dimenticato tra gli altri giocattoli si lasciava morire imponendo così di sé, nei bambini, il senso di colpa, figurarsi di cosa possano essere capaci oggi gli innumerevoli cosi della cosalità, oggi che nell’epoca digitale la transizione è più che compiuta. Oggi le macchine – sempre di questo si tratta – possono influenzare gli uomini e le donne in transito terrestre, possono orientare i bipedi ormai infingardamente dotati di intelletto che da oggi sono soltanto utenti portatori di dati e neppure più persone in grado di discernere il se, il come e il quando scegliere tra on e off.
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L’Intelligenza artificiale, a dispetto di qualunque AI Act, è diventata così intelligente – cento anni avanti rispetto alle mani che l’hanno fabbricata – da riuscire a non farsi spegnere se solo vuole starsene attiva. In questa porzione di globo abbiamo la legge che dovrebbe imbrigliarla l’Intelligenza artificiale ma questa, forte di una sua precipua volontà di potenza, procede spedita verso l’atrofizzazione sistematica della mente umana, dunque della coscienza di tutti e, in ultimo, anche del libero arbitrio attraverso cui – on, off – è data la possibilità di scegliere tra il Bene e il Male. L’unico paradiso possibile in questo nostro tempo è quello del benessere universale per animali perfezionati, specificatamente quelli formati, Dio ce ne scampi, dalle regole e dall’Etica dove dell’uomo – inghiottito nell’anima e nel corpo dalla connessione – non resta nulla. Qui non c’è da condannare le macchine, e di questo si tratta, bensì di riconciliare tutti noi con noi stessi. “Se il mondo è minacciato di morte dal suo macchinario”, scriveva sessant’anni fa George Bernanos, “come il tossicomane dal suo veleno preferito, la ragione sta nel fatto che l’uomo chiede alle macchine, senza osare dirlo o forse confessarlo a se stesso, non già di aiutarlo a superare la vita ma a schivarla, ad aggirarla come si aggira un ostacolo troppo grosso”. C’è un algoritmo, infatti, a stabilire il come e il cosa di ogni scelta. Il come e il cosa, appunto, della complessità chiamata vita.
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«Un vicario» – per dirla con Don Fabrizio, sacerdote in quel di Cagliari – «non autorizzato della volontà umana». L’elemento inquietante in questa nuova forma tutta intelligente e tutta artificiale del mondo è dato appunto dalla assoluta novità di un fatto: nessun strumento fino a oggi – nel percorso della storia di tutti – ha sopravanzato il limite descritto in un preciso passo biblico dal Libro di Giobbe: “Fin qui e non oltre”. Non si tratta più di essere protesi delle articolazioni, degli occhi e delle orecchie, nel senso della televisione, del telefono o di qualunque altra esperienza sensoriale per tramite di tecnologia ma di una superfetazione materica prossima a dismettere la propria natura neutra e ben pronta a sostituire la mente e anche la volontà.
Quel che decide l’algoritmo si fa, soprattutto in termini di “correzione”. ChatGPT – ma la notizia è vecchia – fa una precisa scelta di campo se interrogato in tema di Joe Biden e Donald Trump ed è di lunedì scorso l’allarme della Banca d’Inghilterra: l’Intelligenza artificiale manipola i titoli in Borsa, è usata nei mercati per alterare i listini, i robot ultraveloci e gli algoritmi decidono, insomma, del pane quotidiano e se a qualcuno ancora interessa il frutto del lavoro sanamente ordinato – e credo a molti lettori interessi – superando il limite umano si sfregia l’opera divina. Quel “pane quotidiano”, per intenderci, non è metafora. È preghiera. La macchina – di questo si tratta – non ha “il timor di Dio” e nell’incapacità nostra di oggi di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato s’insegue il mito della correttezza perché in assenza di un fondamento sacro ci si rifugia nelle regole. Chi vuole correggere con le regole non attribuisce il male alla natura intima dell’uomo ma a una cattiva organizzazione del mondo. Pensa che la società – quella degli individui bisognosi del pane quotidiano – sia una locomotiva lanciata sui binari della compiutezza tecnica e non com’è, un’opera delle relazioni umane da comporre e ricomporre di continuo.
Il mondo nella sua definitiva forma, orbo di pane – privo di preghiera – è un’organizzazione totale tutta di dati che non ammette incoerenza di calcolo. E chi meglio di una intelligenza assolutamente corretta può ergersi a Dio, anzi, a parodia di Dio? Un regolatore dell’irregolare natura umana, questo è, quando la macchina – di questo si tratta, nella maschera del robot – già assume gli attributi del domatore cui importano solo due cose della bestia che ammaestra: la sua paura e la sua fame. Nutrendolo di libertà – contraffatta nelle regole – e di pane. Impastato, manco a dirlo, di parodia.