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Salute, lavorate troppo? Ecco che malattia avete

Daniela Mastromattei
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«Le persone che badano a se stesse dimostrano di avere abilità cognitive più sviluppate: riescono a mettere a fuoco i concetti prima degli altri e a concentrarsi meglio e, in definitiva, tendono a produrre di più». Parola di psicologo, dell’americano Russel Thackeray. Dunque prendersi cura di sé - che non vuol dire solo coccolarsi con tisane e massaggi, ma intraprendere iniziative per supportare la propria salute fisica e mentale, senza trascurare quella emotiva - non è un vezzo da vanitosi, ma un’attenzione destinata a fare la propria fortuna. Già nel 1946 l’Organizzazione mondiale della sanità dava una definizione di salute che va ben oltre l’assenza di malattie: è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale». Si chiama armonia tra corpo, mente e rapporti con gli altri.

Assodato che una persona che impara a prendersi cura di sé è una risorsa, poiché riesce a trasferire il benessere personale sul posto di lavoro impattando positivamente sulla produttività, e creando buone dinamiche con i colleghi, la notizia più sorprendente invece riguarda i tanto decantati stacanovisti, coloro che apparentemente riescono a sopportare ritmi strenuanti, i primi ad arrivare in ufficio e gli ultimi ad uscire. Un atteggiamento, questo, da renderli particolarmente simpatici ai vertici delle aziende, che però spesso ignorano il loro reale livello di produttività e li promuovono (quasi automaticamente) a capo di team, con risultati spesso catastrofici. E al momento dei bilanci il danno ormai è fatto.

CAPACITÀ - L’alto numero di ore passate alla scrivania dimostrano innanzitutto che non si possiedono capacità straordinarie. E che si ha bisogno di più tempo per portare a termine l’incarico assegnato. Ma potrebbe anche nascondere ansia e depressione o altri disturbi psichici, l’assenza di una vita sociale, la solitudine, oppure la fuga dalla famiglia, da un partner ingombrante (o sbagliato) e dai capricci dei figli. Proprio così, gli studiosi sostengono che diventare maniaci del lavoro è la risposta a un disagio interiore. E come dipendenza, peggiorala situazione che vorrebbe alleviare, si legge in un recente articolo dell’Internazionale dal titolo “Il legame nascosto tra lavorare troppo e salute mentale”: «Ci sono prove inconfutabili che alcune persone “curino” i loro problemi emotivi anche con il lavoro...

 

 

Molte ricerche hanno dimostrato una forte relazione tra lo stacanovismo e i sintomi di disturbi psichiatrici, come ansia e depressione, ed è stato comunemente ipotizzato che il lavoro compulsivo porti a questi disturbi. Ma alcuni psicologi hanno recentemente sostenuto la tesi della causalità inversa, ovvero che le persone in realtà “curino” la depressione e l’ansia con un eccesso di lavoro. Come hanno scritto gli autori di uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista scientifica Plos One, “lo stacanovismo (in alcuni casi) si sviluppa come tentativo di ridurre i sentimenti di ansia e depressione”».

Il primo è stato Winston Churchill, statista, soldato, scrittore e tra i primi leader mondiali a lanciare l’allarme contro la minaccia nazista negli anni Trenta, entrato nell’immaginario globale per la sua lotta in prima linea contro le potenze dell’asse nella seconda guerra mondiale. Non tutti sapranno che, mentre era primo ministro del Regno Unito durante il conflitto, aveva un’agenda d’impegni molto fitta e faticosa lunga 18 ore al giorno.

IL “CANE NERO” - Churchill soffriva di una depressione paralizzante, che lui stesso chiamava il suo «cane nero» e che lo affliggeva costantemente. Alcuni sostengono che la depressione di Churchill fosse bipolare e che fossero le fasi di mania a permettergli di darsi da fare così tanto. Alcuni biografi invece spiegano le cose in modo diverso: lo stacanovismo di Churchill non era slegato dalle sue sofferenze, ma era causato da esse. Il lavoro era la sua distrazione.

 

 

«Immergersi in un’attività potrebbe essere anche un modo per cercare gratificazioni che mancano altrove. Oppure per dare un senso alla propria vita o per ricostruire l’autostima attraverso promozioni professionali», spiega la psicolologa Emma Cosma. «La dipendenza lavorativa può avere varie ragioni, che possono coincidere con momenti di vita particolari (lutti, separazioni, problemi con i figli)».
Altro che «lo stacanovista lo voglio promuovere, avercene», come dicono gli amministratori delegati, «chi lavora troppo vive uno stato di agitazione e nervosismo costante, uno squilibrio interiore che si può manifestare con comportamenti incostanti, alzate di tono ed esternazioni scomposte», aggiunge la psicoteraputa Cosma. Una persona che nessuno vorrebbe come vicino di scrivania, ancor meno come capo.

CONFLITTI - «In famiglia e nelle relazioni la persona workaholic, dipendente dal lavoro, vive conflitti o tensioni, dovuti soprattutto a richieste di attenzione dei propri cari (genitori, partner o figli), che considera scocciature, futilità che lo distraggono da ciò che è veramente importante, ovvero la sua professione», illudendosi così di dare un senso alla sua vita. Ma se per caso dovesse incappare in un fallimento occupazionale, il rischio di scivolare verso una pericolosa depressione è davvero alto. Anche se il workaholism può sembrare una sindrome complessa, nei manuali diagnostici trova poco spazio, perché è in qualche modo il risultato di una società basata su aziende che per risparmiare riducono il personale costringendolo a produrre il doppio se non il triplo. E chi si lascia trascinare nel vortice rischia di ritrovarsi a fare i conti con la sindrome da burn-out, termine inglese che significa bruciato, esaurito o scoppiato. Nella società che penalizza la qualità in favore della quantità i sani di mente dovrebbero puntare a otto ore di lavoro, otto ore di riposo e svago e otto ore di sonno, la giornata degli spagnoli: trabajar para vivir e non vivir para trabajar, il lavoro deve essere un mezzo non un fine.

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