Sorprese
McDonald's, la rivincita dei panini del fast food: campione delle Dop al ristorante
Oltre 8 ristoranti italiani su 10 utilizzano in cucina prodotti Dop e Igp, ma solo 3 ne impiegano più di 10 per confezionare i cibi che servono. Un quantitativo assai limitato se si considera che gli ingredienti utilizzati da uno chef sono alcune centinaia. Il dato è contenuto in uno studio molto interessante della Fondazione Qualivita dedicato proprio al rapporto fra le indicazioni geografiche e le attività di ristorazione nel nostro Paese. È aumentata di molto, invece, l’incidenza degli esercizi dediti alla somministrazione di cibo che valorizzano nei menu Dop e Igp. Dichiara di farlo il 39% dei titolari. Questo non significa, però, che le loro carte siano infarcite di alimenti certificati. Ne basta uno perché il ristorante entri nel club delle indicazioni geografiche. Interessante la suddivisione per macrocategorie dei prodotti Dop e Igp di cui si servono gli chef. Ben 9 su 10 sono formaggi e 7 aceti balsamici. Seguono con il 65% i salumi e le preparazioni a base di carne, mentre le carni tal quali si fermano al 20% e l’ortofrutta al 18. Chiude la classifica, con un modesto 15% l’olio extravergine d’oliva, nonostante la scelta vastissima di indicazioni geografiche disponibili. A dimostrazione di un’attenzione ancora troppo bassa dei ristoratori verso l’oro verde italiano. Leggi anche: La calvizie? Si cura coi panini di McDonald's CUOCOCRAZIA MIOPE Sono dati, questi, che si prestano a una duplice lettura. Se da un lato testimoniano che l’attenzione per i campioni del made in Italy a tavola sta crescendo, dall’altro mettono in evidenza che questo interesse è soltanto parziale. Come testimoniano le trasmissioni televisive di grande successo dedicate alla cucina e agli chef. La cuococrazia è poco attenta all’origine dei cibi che viene quasi sempre trascurata, a vantaggio di altri criteri di valutazione, come l’aspetto e le qualità organolettiche. E non è un caso se il Consorzio italia zootecnica, una delle maggiori organizzazioni degli allevatori italiani, ha avanzato la proposta di rendere obbligatoria la tracciabi-lità delle carni servite al ristorante. Proponendo addirittura uno schema di decreto all’ex ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina. Iniziativa che purtroppo non ha avuto seguito. Così, alla fine, a puntare con maggiore decisione sull’italianità dei cibi somministrati, è nientemeno che McDonald’s Italia che in collaborazione con numerosi consorzi di tutela tra i quali quelli del Parmigiano Reggiano, dell’Aceto Balsamico di Modena, del Provolone Valpadana, della Cipolla Rossa di Tropea e del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale, ha proposto panini che valorizzano proprio le eccellenze del made in Italy a tavola. I numeri di queste collaborazioni sono notevoli. ALTRO CHE NICCHIE «Negli ultimi 10 anni abbiamo acquistato 2mila tonnellate di materie prime a marchio Dop e Igp con le quali abbiamo raggiunto, attraverso i nostri ristoranti, oltre 58 milioni di persone», racconta Mario Federico, amministratore delegato di McDonald’s Italia, «e per promuovere questi prodotti abbiamo investito 26 milioni di euro in pubblicità». Ma c’è un risvolto dell’operazione perfino più importante per le filiere italiane d’eccellenza che fanno della tracciabilità il loro elemento distintivo. L’iniziativa dimostra infatti «che il mondo delle indicazioni geografiche», spiega Fiorito, «è assolutamente capace di dialogare, non solo con le nicchie, ma anche con aziende dai grandi volumi come McDonald’s». Un fatto che smentisce clamorosamente il teorema tanto caro all’industrialismo del Belpaese che pretende di relegare i campioni dell’italianità a tavola in nicchie dorate, troppo simili però a riserve indiane dell’alimentare. Fintanto che la tracciabilità rimane confinata entro quei territori non disturba. Qualora si dovesse pretendere di estenderla a prodotti che non siano Dop o Igp potrebbe collidere con la pratica di celare la vera origine di quel che gli italiani mettono ogni giorno nel carrello della spesa. di Attilio Barbieri