FOCUS: LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA
Farmaci da prima pagina
Dalla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, alla celebre corsa sulla scalinata del Museum of Art di Rocky, Philadelphia è una città famosa sotto tanti aspetti, sacri e profani. Ma il motivo per cui è entrata di dovere anche nella storia della medicina è che nel 1960, proprio in questa bella città, è stato scoperto il cosiddetto ‘cromosoma Philadelphia’, uno scherzo della natura, derivante dallo scambio di un pezzetto di DNA tra il cromosoma 9 e il 22; il problema sta nel fatto che la ‘fusione’ di due geni, originariamente posizionati ben lontani tra loro, produce una ‘proteina di fusione’ capace di far proliferare all’infinito alcune particolari cellule del midollo osseo e quindi di dar luogo alla malattia, nota come leucemia mieloide cronica. “In passato – ricorda la dottoressa Alessandra Iurlo, Dirigente Medico di I° Livello Divisione di Ematologia, Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Policlinico, Milano - quando comunicavamo una diagnosi di questo genere, purtroppo non potevamo non dire che si trattava di una malattia mortale, dal momento che l'aspettativa di vita era di appena 4-5 anni. Con l’avvento dell'interferone, questa aspettativa si era un po' allungata, ma il prezzo in termini di tossicità per il paziente era altissimo: febbre, dolori muscolari e ossei, con conseguente frustrazione e limitazione nell’attività lavorativa per i pazienti ancora giovani. Nell'anziano invece, lo usavamo poco, perché era tollerato malissimo”. La vera svolta, nella terapia della leucemia mieloide cronica risale però al 1999, con l’arrivo dell’imatinib, un inibitore della tirosin-chinasi che ha rivoluzionato il trattamento di questa condizione, guadagnandosi anche una copertina di ‘Time’ nel 2001. Purtroppo però alcuni pazienti sviluppano resistenza o presentano intolleranza all’imatinib. “Quello della resistenza - spiega la dottoressa Iurlo - rappresenta un grosso problema, perché significa dover aumentare il dosaggio del farmaco e quindi esporre il paziente ai suoi effetti collaterali”. Negli anni 2006-2007, è arrivata una seconda rivoluzione nel trattamento di questa malattia, con la messa a punto degli inibitori di seconda generazione, il dasatinib e il nilotinib, approvati all’inizio solo in seconda linea di trattamento e, dal 2011, anche in prima linea, diventando così farmaci insostituibili nell’armamentario terapeutico. Gli studi di registrazione hanno dimostrato che queste due molecole sono efficaci dal punto di vista citogenetico-molecolare anche nei pazienti che mostrano intolleranza o che non rispondono più all'imatinib. Ben il 50% dei pazienti che non risponde all'imatinib, con questi due inibitori di seconda generazione riesce a ottenere obiettivi davvero importanti. “Come molti miei Colleghi che hanno vissuto il periodo pre tirosin-chinasi, quando il paziente aveva un'aspettativa di vita molto limitata – afferma la dottoressa Iurlo - sono entusiasta di queste nuove terapie che oggi, ci permettono di offrire una sopravvivenza quasi analoga a quella della popolazione normale”. I test di laboratorio Molto importanti nei pazienti che assumono queste terapie sono i test di laboratorio, da fare a intervalli di tre mesi. “Attraverso i test di biologia molecolare – spiega la dottoressa Iurlo - possiamo controllare la ‘risposta molecolare’, che ci indica in quale misura, grazie al farmaco, si è ridotta la proteina anomala che viene a formarsi per via della malattia. Più velocemente la proteina anomala si riduce, più aumenta la possibilità che il paziente raggiunga la ‘risposta molecolare maggiore’, o addirittura ‘completa’, che è un traguardo fondamentale, perché indica la scomparsa anche delle tracce residue di malattia. Una risposta citogenetica completa a 12 mesi si traduce in un’altissima probabilità di sopravvivenza. Adesso sappiamo anche che esiste uno specifico momento, esattamente a 3 mesi dall’inizio della terapia, che è predittivo della sopravvivenza globale e della sopravvivenza libera dalla malattia. Grazie alla loro potenza – prosegue la dottoressa Iurlo - gli inibitori di seconda generazione riescono a dare una risposta citogenetica molto più veloce e una risposta molecolare molto più profonda. E stiamo cominciando a pensare anche alla possibilità di sospendere questi farmaci, una volta ottenuta la risposta molecolare completa. Un traguardo terapeutico che potrebbe avere un impatto notevole, soprattutto tra i giovani, anche per un eventuale desiderio di maternità o paternità”. Il trattamento della leucemia mieloide cronica oggiLe linee guida di riferimento per il trattamento della LMC sono quelle europee di LeukemiaNet del 2010, che prevedono l’imatinib come farmaco iniziale. “Oggi però – spiega la dottoressa Iurlo - gli ematologi tendono a raggiungere risultati sempre più ambiziosi in tempi sempre più brevi. Infatti, se in passato il paziente non rispondeva come avrebbe dovuto all'imatinib, si aspettava per un tempo più lungo prima di cambiare farmaco, mentre oggi si tende ad utilizzare più precocemente gli inibitori tirosin-chinasici di seconda generazione. Pur restando l’imatinib un farmaco cardine della LMC, farmaci come dasatinib e nilotinib devono essere fortemente considerati anche in prima linea, in pazienti con determinate caratteristiche clinico-biologiche. Ma per questo, oltre all’esperienza dell’ematologo, serve un laboratorio di biologia molecolare adeguato”. Una terapia sempre più ‘facile’Dalle quattro compresse al giorno dell’imatinib, all’unica compressa quotidiana del dasatinib, la semplificazione della terapia è stata enorme e impattante sulla qualità di vita del paziente. “Il trattamento con dasatinib – spiega la dottoressa Iurlo – prevede l’assunzione di una sola compressa al giorno e non in concomitanza di un pasto; questo influisce non poco sull'aderenza al trattamento da parte del paziente, e questo porta a raggiungere prima l’obiettivo terapeutico.” (LAURA MONTI)