Olimpiadi

"Che pacco". I trans? In gara contro le donne (basta non essere operati)

Andrea Tempestini

Stop alle operazioni chirurgiche traumatiche; d’ora in poi un atleta maschio potrà gareggiare alle Olimpiadi con le donne e viceversa. Se saranno approvate le nuove linee guida proposte al Comitato olimpico Internazionale il 25 novembre scorso da un comitato di illustri scienziati, medici e psichiatri, si snelliranno le procedure. «Il requisito di cambiamentianatomici come pre-condizione alla partecipazione non è necessario a preservare la competizione leale e può essere incoerente con la legislazione in via di approvazione e le nozioni di diritti umani», precisano le nuove regole transgender. Sopravvivono appena alcune formalità, fra le quali la dichiarazione dell’atleta di essere una donna, purché non cambi idea prima di quattro anni. In sostanza, puoi partecipare a un’edizione dei Giochi presentandoti come femmina e a quella successiva ripensarci e tornare fra gli uomini. Si può cambiare idea, insomma, purché si rispetti qualche parametro. Decisivo al riguardo è il livello di testosterone: se nei dodici mesi precedenti la gara i valori indicano meno di 10 nmol al litro, l’uomo può presentarsi tranquillo ai nastri di partenza e disputarsi la vittoria a signorine che sono geneticamente, oltre che anagraficamente, donne. Sopra tutti i vari regolamenti, infatti, c’è l’esigenza di «assicurare per quanto possibile che gli atleti trans non siano esclusi dall’opportunità di partecipare alle competizioni sportive», spiega il documento uscito dal meeting su «riassegnazione del sesso e iperandrogenismo». L’ultimo termine è il più controverso. Potrebbe nascondere la realtà di donne (i trans-men), che per mascolinizzare il loro corpo assumono testosterone, con il rischio di essere accusate di doping. Senza tornare con la memoria alle virago dell’ex Germania dell’Est che scendevano in piscina suscitando la perplessità delle avversarie, il caso più famoso è quello della sudafricana Mokgadi Caster Semenya, la campionessa degli 800 metri piani che aveva vinto la medaglia d’oro a Berlino nel 2009 e l’argento alle olimpiadel 2012 a Londra. Anche se è un ermafrodita, ma gli esiti delle analisi mediche che dovevano accertarlo sono stati secretati, le è stato permesso di gareggiare nelle competizioni femminili. Più recentemente la questione era stata sollevata presso il tribunale arbitrale dello sport di Losanna, anche dalla velocista indiana Dutee Chand, campionessa dei cento metri squalificata nel 2013 dalla federazione nazionale perché il suo corpo produce quantità non comuni - e non consentite - dell’ormone maschile per eccellenza. Il 28 luglio, i giudici le avevano dato ragione, ordinandone l’immediato reintegro. Rimangono tuttavia, delle tabelle alla quali fare riferimento. E in ogni caso occorre che si tenga conto della «protezione delle donne e della promozione dei princìpi della competizione leale». Comunque, se dovessero sorgere controversie, c’è una soluzione a portata di mano. Semplice, dicono i saggi al Cio: «Per evitare la discriminazione, se l’atleta non sarà giudicata idonea per le competizioni femminili, dovrebbe esserlo per quelle maschili». A meno che si organizzino campionati per soli transgender, intersex, lgbt e per quella attuale ventina di generi diversi dal maschile e dal femminile che sono alla ricerca di una tutela anche giuridica in tutti i campi, compresi quelli sportivi. di Andrea Morigi