Psicodramma lumbard in rete

Giulio Bucchi

La Lega si sbriciola e i dirigenti farebbero bene a preoccuparsi. Il 22 gennaio è in calendario la manifestazione di Milano: doveva essere una prova di forza contro il governo ma rischia di diventare un boomerang. I militanti sono inferociti e s’ingrossa il fronte che guarda a Roberto Maroni. A questo punto è probabile che sul palco interverrà solo il Senatur, così come doveva essere nell’ultima Pontida, per provare a nascondere le divisioni. La Lega si è spaccata su Nicola Cosentino, l’azzurro accusato di legami con la camorra e scampato alla cella grazie al voto di ieri della Camera. Nella riunione preventiva dei deputati lumbard s’è sfiorata la rissa. Il tutto sotto gli occhi di un Senatur nervosissimo e stizzito con l’ex ministro dell’Interno, accusato di volergli fare le scarpe. Dopo la scelta dell’Aula, il leader ha buttato benzina: «Maroni scontento? Non piangeremo…». La giornata era cominciata subito male. A Milano, studi di RadioPadania, telefoni roventi con i militanti che chiedono le manette per l’azzurro. Sotto la Madonnina il segnale va e viene, parecchi non prendono la linea e chiamano TelePadania. Quasi negli stessi minuti, a Roma, i deputati si radunano nella sala del gruppo. C’è un silenzio irreale. Bossi, che mercoledì sera aveva annunciato la libertà di coscienza smentendo Maroni che era per le manette, detta la nuova linea: «Votiamo no all’arresto di Cosentino, nelle carte non c’è nulla». Bobo non muove un muscolo: se l’aspettava. Prende la parola Luca Paolini, membro della Giunta per le Autorizzazioni. Lui, che pure aveva dato parere favorevole alla galera, confessa che sarebbe meglio salvare il berlusconiano. Cita alcuni casi di malagiustizia. Ricorda Enzo Tortora. Poi scivola, perché fa pure il nome di Enzo Carra e – giura qualcuno – quello di Giulio Andreotti. Ma quando ricorda il parlamentare Udc succede il finimondo. L’11 marzo del 2004, quando si era diffusa la voce del grave malore notturno del Senatur, Carra aveva preso parola in Aula: «Ecco cosa succede a chi vuole dividere il Paese». Gran parte dei lumbard non hanno dimenticato. È il caos. Salta su Gianpaolo Dozzo, parlamentare trevigiano rivale del maroniano sindaco di Verona Flavio Tosi. Eppure è una furia, s’avvicina minaccioso a Paolini che gli urla un «chi cazzo sei...». Dozzo è un leghista di lunghissima data e molti colleghi non gradiscono venga insolentito. Paolini si becca del «venduto a Berlusconi». Gli ringhiano contro: «Rispetta chi è stato tra i primi leghisti!». Davide Caparini è una molla, scatta verso Paolini e gli prende il braccio. Il capogruppo Marco Reguzzoni prova a riportare la calma. Bossi è nervosissimo. Non s’aspettava un clima del genere. Fuma. Entra ed esce dalla stanza. Prende parola Maroni e ricorda che lunedì, alla segreteria politica, era stato deciso di votare per le manette. E in Giunta la Lega s’era comportata di conseguenza. «Non c’è fumus persecutionis» insiste Bobo. Il Senatur cambia ancora opinione. Rimprovera l’ex ministro: «Non dovevi dire ai giornalisti che volevamo l’arresto». Però afferma che va bene spedire in cella il berlusconiano, «ma resta valida la libertà di coscienza». Il gruppo è lacerato ed è evidente la tensione tra il leader e l’ex titolare dell’Interno. In Aula, col voto segreto, finisce com’è noto. Bossi non si presenta neanche. Cosentino si salva, e probabilmente dovrà ringraziare anche Udc e Pd. Ma tutta la colpa (se di colpa si può parlare) ricade sul Carroccio. Anche se - giurano i maroniani - i lumbard contrari alla cella non saranno stati più di 15 su 59. L’ex inquilino del Viminale si fa fotografare mentre vota per il sì. Idem altri parlamentari che pubblicano il video su Facebook. Parecchi militanti si sfogano sui social network. La stragrande maggioranza chiede spiegazioni. È inferocita. I deputati del cerchio magico, i colonnelli vicini alla famiglia del Senatur, gongolano: il capo è ancora Bossi, per Maroni è una sconfitta. Opposti i pareri dell’altra fazione: «Senza ambiguità» detta un fedelissimo dell’ex ministro «abbiamo tenuto alta la bandiera della vera Lega, quella contro la mafia e contro i maneggi. Il segretario federale deve capirlo e tornare con noi». Il capo lumbard nega addirittura l’evidenza, come gli investimenti su un fondo della Tanzania confermati dal suo tesoriere Francesco Belsito. «I fondi della Lega sono andati in Norvegia, fuori dall’euro che sta per fallire e ci spazza via i soldi, altro che in Tanzania». Poi parla del caso-Cosentino: «La Lega non è mai stata forcaiola e un terrone non deve andare per forza in galera. La base non è amica dei magistrati». Maroni prova a buttare acqua: «Non c’è disaccordo tra me e Bossi...». Il partito ribolle, ma alcuni parlamentari tentano di ragionare nel merito del caso Cosentino. L’ex Guardasigilli Roberto Castelli, per esempio, confessa che avrebbe votato contro l’arresto. Ma lui è senatore, ieri non doveva esprimersi. Matteo Salvini, invece, ricorda una frase di Oriana Fallaci: «Ci sono momenti in cui tacere diventa una colpa». Non è casuale, visto che pochi giorni fa l’europarlamentare aveva chiesto spiegazioni sugli investimenti all’estero della Lega, beccandosi gli insulti del cerchio magico. Bossi tira dritto. Giura che «Berlusconi non mi ha convinto» a salvare Cosentino e ripete: «Ero per la libertà di coscienza». Però l’asse col Cavaliere si ricompone anche sulla legge elettorale. Dopo la bocciatura dei referendum per mano della Consulta, l’ex premier riabilita il Porcellum rimangiandosi le recenti aperture: «È una buona legge». Il Senatur concorda: «È la legge migliore, si voti». In caso di urne anticipate, con l’attuale norma i leader selezionerebbero i candidati. E il cerchio magico punta a far piazza pulita dei rivali interni. «Nella Lega non c’è nessuna rissa» ripete Bossi. I maroniani hanno il muso lungo: «Il Cavaliere l’ha convinto di nuovo...». di Matteo Pandini vai al blog Padanians twitter @padanians