Monti darà le nostre tasse a Merkel

Giulio Bucchi

Le mani della Merkel sull’Italia. Se l’indiscrezione del Wall Street Journal ha un merito è quello di aver riportato l'attenzione su quei giorni concitati, consultazioni informali ed atti fondamentali passati quasi sotto silenzio. Berlino, ad ottobre, pare abbia chiesto al Quirinale (che nega) di far «saltare» il governo Berlusconi. E qui entriamo nel campo della fantapolitica. Ipotesi retroscenista che circolava da tempo piùo meno accreditata e altrettanto smentita. Ciò che è invece certo è che - senza alcunmandato - l’Italia ha formalmente delegato la propria politica fiscale all’Europa. E visto lo Stato dei nostri conti pubblici non è da attendersi un livellamento sui livelli europei (più bassi) della pressione fiscale. La cosa clamorosa è che questa delega all’azione fiscale - manovrata da Bruxelles sotto la regia della Bce - sia passata come un fruscio. E che pochi ne abbiano compreso l’importanza. Ne ha fatto appena qualche cenno il presidente del Consiglio Mario Monti il 14 dicembre scorso, in una delle più turbolente sedute del Senato della Repubblica. Eppure frapocopiù di tre mesi - come già riportato da Libero settimane fa - un gruppo di alti euroburocrati, guidato dall’immancabile belga Herman Achille Van Rompuy (attuale presidente del Consiglio europeo), presenterà le linee guida del piano con cui l’Unione europea renderà di fatto prive di senso tutte le prossime campagne elettorali italiane, rendendo definitivo l’attuale commissariamento in corso. Qualche titolo di giornale ha spiegato per sommi capi che 26 Paesi su 27, con la sola eccezione della Gran Bretagna, si preparano amodificare i trattati europei stabilendo il percorso con cui ognuno cederà alla Ue la sovranità fiscale attualmente posseduta, creando quella che è stata chiamata Unione fiscale europea. L’8 e 9 dicembre scorso, senza avere nessun mandato esplicito nemmeno dal Parlamento italiano (che non ne ha mai discusso), e nell’assoluta ignoranza dell’opinione pubblica, il premier Mario Monti ha fatto aderire in via di principio l’Italia alla nuova politica fiscale comune. Alle spalle aveva solo un disegno di legge costituzionale già presentato nel caos dell’estate in cui si prendevano sberloni dalla speculazione dal governo di Silvio Berlusconi: il testo di legge che inserisce nella Costituzione l’obbligo di pareggio di bilancio. È stato presentato in fretta e furia come una condizione che ci veniva chiesta dagli altri partner del Vecchio continente per avere una mano dalla Bce nel momento più critico, e nessuno ha obiettato. Infondo si tratta di un principio buono, che ci costringe ad essere virtuosi. Solo sulla carta, però. Perché la virtù ha due facce: quella di un Paese che tiene entrate e uscite in pareggio, magari abbassando le tasse quando è necessario e accompagnando le misure con un taglio analogo alle spese superflue. Ma può anche esserci l’altra faccia, che è quella che stiamo vedendo in queste settimane: un Paese in cui aumentano le spese (anche quella per interessi lo è), e che le compensa alzando le tasse in modo assai pesante. Questa - criticabilissima - è stata la scelta operata dal governo tecnico di Monti. Forse l’ultima scelta che spetteràmai più all’Italia. Perché se verranno approvate entro fine marzo 2012 le nuove regole a cui Monti ha portato l’adesione italiana, il governo di Roma cederà a Bruxelles la decisione sulle prossime manovre italiane. E se i conti pubblici di Roma non saranno a posto, sarà l’Unione europea (una istituzione che non risponde all’elettorato italiano) a obbligare l’Italia ad alzare nuovamente la pressione fiscale sui propri cittadini. Certo, si potrà dire ancora di non essere d’accordo: ma bisognerà avere alleati i tre quarti dei 26 paesi che aderiranno all’Unione fiscale, quindi altri 19 paesi. Condizione praticamente impossibile. In ogni caso non ci sarà mai più la possibilità opposta: quella di abbassare le tasse in modo significativo, a meno che esista un surplus di bilancio così ampio da non trovare obiezioni a Bruxelles. Tradotto in parole povere: la decisione presa da Monti di fare entrare l’Italia nell’Unione fiscale europea, renderà impossibile qualsiasi autonoma decisione di politica economica ai governi politici nazionali che prima o poi dovranno raccogliere l’eredità dell’esecutivo tecnico. Quindi inutile qualsiasi campagna elettorale, perché è proprio sulle ricette di politica economica che si marcano le differenze fra uno schieramento e l’altro. Perché se fosse stato possibile discuterne (ma evidentemente tutte le decisioni europee sono ormai sottratte alla democrazia e perfino all’informazione dei popoli), è evidente che un’Italia con la pressione fiscale in queste condizioni non può cedere la sua sovranità sulla materia. C’è una pressione da record del mondo sui contribuenti che non possono né evadere né eludere, e zero sugli evasori fiscali. Congelare un fisco così, e passare il pallino a un’Unione europea chiaramente dominata dall’asse franco-tedesco, è pura follia. E se c’era un governo che doveva astenersi dal compiere quel passo, questo era certamente il governo Monti: l’unico della storia repubblicana a non avere alcun tipo di mandato popolare. di Franco Bechis