Ma il Pil a -3% lega le mani al Prof

Andrea Tempestini

I mercati urlano l’irragionevolezza di quel che stiamo facendo, noi italiani e noi europei, ma il comitato degli stregoni, i presunti esperti che credono più alle superstizioni che ai dati e alla realtà, naviga come la ciurma d’Odisseo: con le orecchie tappate. Prima s’è passati di manovra in manovra, di cui l’ultima costruita quasi tutta con tasse, in questo modo dando una mano alla recessione. Ora si pretende di parlare di sviluppo e seconda fase, laddove il tempo a disposizione non consente minimamente di cullarsi nelle fantasticherie. Chi ieri invocava di fare in fretta e fare subito ora, grazie anche alle feste e ai giorni senza quotidiani, provi, con calma, a riflettere su questi numeri: il nostro debito pubblico è sostenibile e riducibile se si mantiene uno sviluppo nell’ordine del 3% e un differenziale di tassi d’interesse, il celeberrimo spread, inferiore a 400 punti base, nella realtà, invece, il 2012 potrebbe portare una recessione di 2,5-3 punti (le proiezioni circolano, mentre la previsione peggiore è di Carlo De Benedetti, non un nostalgico del vecchio governo, quindi), mentre lo spread è inchiodato attorno ai 500. Chi crede che da questa condizione si possa uscire con un decreto, foss’anche emanato da un governo di marziani cui il Quirinale conceda tutto, non è un illuso: è un pazzo. Il problema non è quanto durerà il governo Monti, o quanto ampia (tanto o tantissimo) resterà la maggioranza parlamentare che lo sostiene, ma quanto potremo resistere bruciando quotidianamente ricchezza e quanto tempo ancora potremo farlo rinunciando all’intelligenza politica. Il guaio europeo consiste nel sommarsi di tante democrazie in cui nessun elettore vota in ragione di quel che ritiene il bene comune collettivo, sicché le decisioni più importanti, come quelle relative al credito e alla moneta, sono prese in consessi tecnici, o di governanti tenuti a rispondere a opinioni pubbliche nazionali. Il guaio italiano è che la melassa retorica con cui s’addolcisce l’idea d’Europa non ne copre l’amaro retrogusto: quando va bene la si concepisce come un vincolo, e quando va male come un’espiazione. È evidente che, in queste condizioni, il fiume compresso e umiliato degli interessi regionali e settoriali romperà gli argini istituzionali di un letto artificiale, cementificato, non assorbente, concepito e costruito per la siccità e incapace di contenere la piena. L’Italia non è la Grecia. Non ha truccato i conti pubblici ed è una delle grandi potenze economiche mondiali. Abbiamo colpe notevoli, verso noi stessi, ma non abbiamo mai tradito chi investe nel nostro debito pubblico e abbiamo pagato la nascita dell’euro. Il guaio è che l’Italia non è la Grecia anche sotto un altro punto di vista: la seconda è troppo piccola, mentre noi abbiamo la stazza sufficiente perché ci si attribuisca la colpa del fallimento dell’euro, laddove, al contrario, è il fallimento dell’euro che rischia di schiantarci. Se il Paese avesse ancora cervello politico, se la classe dirigente non fosse un’accolita di vecchi perdenti e persi, smarriti per assenza dell’ideologia cui si votarono o per tramonto del pericolo interno che portò loro voti, oggi assisteremmo alla nascita di una legislatura e un governo destinati a difendere i nostri interessi nazionali in sede europea. Convinti che quegli interessi coincidono con quelli di un’Europa più integrata e funzionante, al contrario di quel che capita agli interessi tedeschi. Lo stesso governo Monti, per la natura non politica e per la storia personale di chi lo presiede, avrebbe dovuto svolgere esattamente questa funzione: prendere le misure d’emergenza e farsi valere nell’Unione monetaria. Invece continuiamo ad alimentare una guerra di retroguardia, continuiamo a volere regolare i conti del secolo scorso, nel mentre il governo tassa e non guadagna peso continentale. Anzi, a ben vedere: la pretesa quirinazilizia di stabilire chi è adatto a governare sulla base del gradimento straniero, e i festeggiamenti demenziali per la riammissione dei nostri governanti al tavolo da pranzo europeo sono ulteriori elementi di declassamento provinciale. Semicoloniale. Sono sintomi d’un Paese che perde sovranità, ma ha una classe dirigente che piuttosto che riconquistarla preferisce approfittarne per accoltellare il vicino di banco. Il tempo a disposizione è poco, anche se sembra che più nessuno abbia fretta. L’unica sede in cui si gioca il nostro futuro è quella europea. O fuori d’Europa, cercando la sponda che ci consenta di spaccarla. Il Consiglio europeo dell’8 dicembre è stato un fallimento, come noi avvertimmo subito e come ora (quasi) tutti riconoscono. Ma la squadra politica è complessivamente intenta a spaccarsi gli stinchi e calciarsi sulla faccia. Negli spogliatoi. di Davide Giacalone www.davidegiacalone.it