Lo schifo di Monti per la politica
Due settimane. Tanto è durato l’atteggiamento rispettoso di Mario Monti nei confronti del Parlamento, e in definitiva di chi (a differenza di lui) è stato scelto da quella cosa fastidiosa e sempre più inutile chiamata elettori. Sarà stata l’aria da eurocasta burocratica che si respira negli stanzoni del palazzo del Consiglio europeo di Bruxelles, o la consapevolezza che, qualunque cosa dica il premier, la grande stampa continuerà ad adorarlo e un’ampia maggioranza di senatori e deputati non potrà non appoggiarlo. Fatto sta che il pacato ex commissario europeo nella conferenza stampa di ieri ha sfoderato per un istante gli artigli del coniglio mannaro. Spettacolo imprevisto e niente affatto gradevole: «L’Europa non ha bisogno di essere imbrattata sul piano della comunicazione da politici nazionali che trovano comodo dare la responsabilità ad altri», ha detto Monti con tono fattosi acido all’improvviso. Un invito esplicito ai politici nazionali, italiani prima di tutto, a non attribuire all’euro la colpa della tragedia continentale e a non criticare gli uomini e le istituzioni che sorreggono (si fa per dire) la moneta unica europea. Lascino lavorare i leader degli organismi internazionali, unici autorizzati a parlare. L’accusa di «imbrattatori» rivolta a chi gli ha votato la fiducia arriva inattesa, a maggior ragione perché proveniente dal leader di un governo tecnico, mai legittimato dal voto popolare e finora sempre attento a rispettare, almeno a parole, le prerogative del Parlamento. Nei fatti invece qualche inciampo c’era già stato, primo tra tutti la gaffe rimediata per opera del cancelliere tedesco Angela Merkel. La quale una settimana fa, al termine di un vertice a Strasburgo con lo stesso Monti, annunciò di aver preso visione delle «misure strutturali» preparate dal primo ministro italiano e di averle trovate «impressionanti». Si scoprì così che Monti aveva mostrato i provvedimenti in preparazione ai suoi colleghi europei prima ancora che al Parlamento italiano. Nessuno apprezzò, ma solo qualcuno della Lega e del Pdl ebbe il coraggio di replicare allo sgarbo. La ferita però resta aperta, se è vero che lo stesso Monti pure ieri è dovuto tornare sull’argomento, assicurando di aver svelato, nei suoi incontri europei di questi giorni, «un grado di dettagli» sulle riforme strutturali in preparazione «inferiore a quello dato in Italia nelle presentazioni in Parlamento». Il che appare comunque poco credibile, visto che già al Senato e alla Camera Monti non aveva detto granché, cavandosela con il minimo sindacale e ottenendo in cambio una fiducia quasi plebiscitaria. Il risultato è stato l’ennesimo regalo alla Lega. Nemmeno nei sogni più hard il Carroccio avrebbe potuto sognare di essere l’unico partito all’opposizione di un governo pronto ad aumentare le tasse, a decurtare le pensioni e – almeno a sentire il ministro Andrea Riccardi – a riaprire le porte agli immigrati, senza riuscire in due settimane a ottenere un minimo di fiducia da parte dei mercati. Così per i senatori leghisti ieri è stata una gioia picchiare sull’infelice uscita di Monti e su chi è costretto a deglutirla senza reagire: «Scopriamo che non solo il Pd e il Pdl devono votare, ma anche stare zitti e il tutto a scatola chiusa. Non si possono neanche permettere di parlare e commentare per non imbrattare l’“ottimo” lavoro dei tecnici. Noi dall’opposizione», infieriscono le camicie verdi, «saremo ben felici di imbrattare». Pdl e Pd, infatti, subiscono in silenzio le frecciate di Monti. Almeno per ora. Ma l’uscita del premier non aiuta certo a migliorare i rapporti. E in Parlamento qualcuno potrebbe presentare il conto al professore prima del previsto. di Fausto Carioti