L'eredità della Dc e la sconfitta di Romani Prodi

Paolo Cirino Pomicino dipinge un ritratto impietoso dell'ex presidente del Consiglio
di Francesco Damatogiovedì 27 marzo 2025
L'eredità della Dc e la sconfitta di Romani Prodi
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Paolo Cirino Pomicino, 86 anni da compiere a settembre, l’unico imputato di Antonio Di Pietro riuscito a strappargli, sia pure in un ospedale, la promessa di tesserne gli elogi in Chiesa una volta morto, non ha saputo resistere alla tentazione di togliersi qualche sassolino da una scarpa, o da entrambe, parlando al Foglio del suo ex collega di partito, o di area, e coetaneo Romano Prodi, 86 anni da compiere in agosto. Intervistato proprio come Pomicino, e non Geronimo, il capo degli indiani Apache assunto da lui come pseudonimo negli anni del terrore giudiziario di “Mani pulite”, quando si faticava anche a firmarsi, come andare per strada o al ristorante, l’ex ministro andreottiano ha fatto un ritratto politicamente impietoso del Prodi partecipe di una certa voglia o nostalgia della Dc.

Partecipe naturalmente al suo modo, anche ruvido come quando gli è capitato di insolentire una giornalista televisiva che gli aveva fatto una domanda sgradita sulle polemiche del momento. Che riguardavano il manifesto di Ventotene scritto nel 1941 da confinati antifascisti destinati ad una santificazione europeistica forse troppo generosa. Anche secondo l’opinione di Pomicino, espressa sempre sul Foglio in coincidenza con una intervista analoga di Rocco Buttiglione ad Avvenire, che ad aprire davvero il cantiere dell’unità europea siano stati ai loro tempi gli statisti Conrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schumann, in ordine rigorosamente alfabetico: tedesco il primo, italiano il secondo e francese il terzo.

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«Prodi, che è stato sempre democristiano, un grande democristiano particolare, oggi misura il suo fallimento», ha detto Pomicino. Che ha spiegato: «Era partito con l’Ulivo, nome evocativo di una cristianità perseguitata, nome che giocava in rimessa. E infatti l’Ulivo è scomparso. E ha continuato con politiche che, a mio avviso, non hanno aiutato la crescita del paese, anzi. Ed eccoci qui, con i salari reali più bassi d’Europa e pochi investimenti pubblici e privati», ereditati da Giorgia Meloni ed altri che l’hanno preceduta dopo gli annidi Prodi, appunto.

La ragione di tanta, sostanziale depressione nella quale si è trovata l’Italia «affonda», ha detto Pomicino «anche in un atteggiamento tipico del cattolicesimo di sinistra dopo Tangentopoli». «La cui politica di riferimento», ha spiegato e ricordato Pomicino «doveva scomparire, tanto che nel 1993 un gruppo di esponenti della sinistra democristiana si recò dall’ambasciatore americano Reginald Bartholomew a spiegare che la Dc non si sarebbe mai ricomposta. Il percorso era stato deciso: avvicinarsi agli ex comunisti, pensando di mettersi al riparo dalle Procure»: quelle della Repubblica giudiziaria che si è rivelata coriacea nella difesa degli spazi conquistati dalla magistratura a scapito della politica.

All’insaputa tuttavia dei magistrati e quant’altri interessati alla scomparsa di quella che Pomicino ha chiamato la “cultura di riferimento” della Dc di De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, De Mita, Forlani e via navigando fra i ricordi dello scudo crociato, quella cultura ha in qualche modo resistito. Osi è rifugiata in altri contenitori politici ed elettorali, direi ormai più a destra che a sinistra con i cambi generazionali intervenuti. Ed è questa la realtà che forse persino Pomicino stenterà a riconoscere del tutto, o tanto da immedesimarvisi. Come hanno fatto invece suoi amici o quasi conterranei quale Gianfranco Rotondi, di più di vent’anni meno di lui. Se stenta a riconoscerlo Pomicino, figuriamoci se potrà mai ammetterlo Prodi nella grande considerazione peraltro che ha di se stesso, sino alla irascibilità delle sue reazioni a chi osa fargli domande senza inginocchiarsi al suo cospetto e chiedergli scuda del disturbo. Eppure è questa la realtà, ripeto, con la quale anche il professore, dall’alto delle sue certezze persino accademiche è chiamato a fare i conti.

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