Ai compagni restava il mito di Ventotene. E ora litigano pure su quello...

di Corrado Oconelunedì 17 marzo 2025
Ai compagni restava il mito di Ventotene. E ora litigano pure su quello...
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Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come nota e di accettarla come tale». Ci vorrebbe il buon vecchio Hegel, che forse un tempo si studiava nelle sezioni di partito se non altro perché “maestro” di Marx, per spiegare l’improvvisa creazione a sinistra del mito del Manifesto di Ventotene. Un mito fondato sul pregiudizio positivo di chi ha creduto di conoscere quel testo ma in realtà non lo aveva mai né letto né analizzato. A « forza di essere evocato però il Manifesto è ritornato all’attenzione di militanti e simpatizzanti. Repubblica lo ha addirittura offerto in omaggio col giornale. Ed ecco che allora la sinistra ha cominciato a dividersi pure su quello che sembrava dovesse essere il suo nuovo testo di riferimento.



Andrea Malaguti, il direttore de La Stampa, nel suo editoriale domenicale, ha scritto senza troppe perifrasi che nell’aver affermato che il Manifesto è bello si è stati alquanto enfatici. Dopo tutto, quel testo è inservibile perché antiquato, datato, superato: “oggi ne occorre uno nuovo, contemporaneo, incardinato a ideali contemporanei”. Vasto programma per chi non riesce ad accordarsi nemmeno su un voto europeo. Ad aggiungere fuoco alle polveri, sempre ieri e sempre sullo stesso giornale, è stato poi lo storico Giovanni De Luna. Il quale ha fatto notare che il testo redatto nel 1941 nell’isola pontina da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, in collaborazione con Eugenio Colorni, è stato divisivo sin dal momento della sua apparizione.

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Togliatti e i comunisti non tolleravano il fatto esso considerasse la guerra come un male assoluto che però avrebbe potuto far aprire gli occhi a tutti e portare ad un lungo periodo di pace attraverso la federazione europea. Per loro la pace avrebbe potuto garantirla solo l’Unione Sovietica. La quale aveva perciò l’obbligo di continuare la guerra fino a quando non l’avrebbe vinta. Non tutti i nazionalismi erano equiparabili nell’ottica togliattiana, ed anzi l’esempio russo mostrava come si potesse essere fieri patrioti e nello stesso tempo lavorare per la pace di tutti, che ovviamente era quella comunista, cioè garantita non da una federazione europea ma dal Comintern a guida sovietica. In verità, De Luna concede troppo agli autori del Manifesto. Lo storico torinese ha sicuramente ragione nell’ossevare che in quelle pagine è criticato lo statalismo e la burocratizzazione della vita nello Stato sovietico. Altrettanto vero è però che l’idea politica che gli autori propongono è altrettanto dirigista e antidemocratica, élitaria.



Non va dimenticato che i comunisti giudicavano sprezzantemente il Partito d’Azione, a cui i tre autori facevano riferimento, un “partito di intellettuali”, oggi diremmo di fighetti, da utilizzare al massimo come “utili idioti” sulla strada che avrebbe portato al trionfo della propria causa. Insomma, il Manifesto è un testo contraddittorio, un appello all’azione più che un concentrato di teoria politica. È testimonianza di un momento della storia altrettanto e più confuso di quello odierno. Nulla più. La notizia è che i compagni, che di miti e simboli hanno sempre bisogno, hanno cominciato a dividersi e a litigare anche su Spinelli e compagni. Cercano l’unità dell’Europa, ma non riescono a trovarla nemmeno a casa loro.

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