Sinistra, il vero volto
Il Manifesto di Ventotene? Altro che modello: voleva in Europa il socialismo in stile sovietico
Il generatore automatico di luoghi comuni è sempre attivo a sinistra. È bastato che Michele Serra invocasse, sulle pagine di Repubblica, una manifestazione di piazza “per l’Europa” che la retorica eurolirica, che sui luoghi comuni vive e prospera, ricomparisse come d’incanto nel discorso pubblico.
E con essa l’idea che il Manifesto di Ventotene possa ancora oggi essere per noi il modello cui ispirarci. Al coro non ha fatto mancare la sua voce nemmeno Elly Schlein, che non si è limitata ad aderire all’appello di Serra, ma ha anche tenuto a sottolineare che «dobbiamo essere all’altezza di quella grande intuizione maturata su una piccola isola da alcuni giovani antifascisti mandati al confino, che seppero scrivere un manifesto visionario e ancora attuale».
È veramente così? È il Manifesto l’incarnazione dei più puri ideali di democrazia e libertà? Basta procurarsi e leggere il libretto che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero nel 1942, e Eugenio Colorni pubblicò a Roma in clandestinità poco dopo, per rendersi conto che si tratta di un testo poco solido, un tipico manifesto di battaglia politica che va storicizzato e ricondotto al contesto del tempo in cui fu scritto.
In maniera molto semplicistica, i due autori imputano al nazionalismo la responsabilità delle due guerre mondiali, dimenticando del tutto il ruolo positivo che l’idea di nazione aveva invece svolto nell’Ottocento per l’affermazione e l’autodeterminazione dei popoli. Da qui l’idea che, per garantire la pace, bisogna fare a meno degli Stati nazionali. La stessa Europa, vista dalla loro prospettiva, non dovrà essere altro che una fase transitoria, o una tappa intermedia, lungo il processo che porterà un giorno allo Stato cosmopolitico o globale che è il loro vero obiettivo. D’altronde, l’Europa che loro immaginano, pur avendo superato gli Stati nazione, avrà i tratti del peggiore statalismo. Il Manifesto propone infatti: “nazionalizzazioni su vasta scala, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti”; controllo e forte limitazione dei diritti di proprietà; equiparazione di stipendi e salari medi; controllo sui prezzi e sul meccanismo della domanda e dell’offerta; reddito minimo in sostituzione delle “avvilenti” attività di solidarietà individuali; sindacati non succubi del “grande capitale”; un laicismo che si faccia anche pedagogia pubblica; una statualità che fissi “in modo inequivocabile la sua supremazia sulla vita civile”. Un’Europa siffatta dovrà nascere, secondo Spinelli e Rossi, con una rivoluzione, anche violenta, cioè con un’azione che raggiunga gli obiettivi che ci è proposti nel minor tempo possibile e senza badare al consenso dei popoli: “la metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”.
Se ci fossero poi ancora dubbi sulla vera ispirazione del testo basti considerare quest’altro passo: “l’Europa dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita”. Non manca neanche, nel Manifesto, il necessitarismo storico, cioè l’idea dell’ineluttabilità e irreversibilità di un progresso storico che noi possiamo accelerare con la nostra azione: “la via da percorrere non è facile e sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”.
Ad onor del vero bisogna riconoscere che a discostarsi dai punti più critici del Manifesto fu anni dopo lo stesso Spinelli, per vari anni parlamentare eletto come indipendente nelle liste del Pci (il quale, almeno fino agli anni Ottanta, tutto fu fuorché europeista). Assumere oggi il Manifesto come modello insuperabile di libertà e democrazia è perciò a dir poco discutibile. È indice di ignoranza, nel migliore dei casi, di malafede, nel peggiore...