Almasri
Ecco per ché la sicurezza viene prima delle baruffe in Aula
Caro direttore, al netto del vorticoso lancio di torte in faccia fatto in diretta tv durante il dibattito alla Camera e al Senato sul caso Almasri, c’è stato invece un non detto che costituisce il cuore di tutta la vicenda. Si tratta di un non detto da parte di tutta l’opposizione, con l’eccezione di Calenda e di Rosato, e di uno scarsamente detto da parte dei ministri e degli stessi esponenti della maggioranza per non complicare le cose sul piano diplomatico rispetto alla Libia. A suo tempo Berlusconi a Obama, Sarkozy e Napolitano, che lo pressavano per dar via libera all’intervento militare contro Gheddafi, rispose: «Se si progetta l’eliminazione di un dittatore che però con il bastone e con la carota controlla le decine di capibastone che a loro volta controllano quel Paese, mi si deve dire con quale governo democratico o con quale dittatore più affidabile lo si vuole sostituire».
Berlusconi fu un facile profeta. Dopo l’eliminazione di Gheddafi, la Libia è sostanzialmente uno Stato fallito e divisa fra due governi. A livello internazionale le due uniche forze militari presenti sono l’esercito turco e i contractors russi. A suo tempo l’Italia ha rinunciato ad avere una presenza militare sul campo e da allora ad oggi ne sta pagando le conseguenze. Ad un certo punto però il governo Gentiloni e il ministro dell’Interno Minniti si sono resi conto che con questo sistema semi-tribale l’Italia deve fare i conti. Ma è inutile nasconderci dietro un dito. Noi abbiamo tre realtà assai significative da tutelare. In primo luogo l’Eni che sta svolgendo un ruolo decisivo nei confronti di tutta l’Europa. In secondo luogo, in quel Paese lavorano circa un migliaio di italiani, tutti a rischio di sequestro; in terzo luogo, dalla Libia possono partire decine di barconi pieni di migranti.
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La sacralità della Corte internazionale penale non ci può impedire di fare i conti con la polpetta avvelenata che essa ci aveva preparato: Almasri ha avuto un bollino blu che gli ha consentito di viaggiare indisturbato per l’Europa per quindici giorni, tramutato in un bollino rosso non appena è arrivato in Italia. È incredibile che nel dibattito parlamentare nessuno dall’opposizione abbia fatto i conti con quello che sarebbe potuto accadere come conseguenza di un arresto che per di più presentava anche rilevanti contraddizioni procedurali. A quel punto qualche impianto dell’Eni poteva essere fatto saltare con un ordigno, qualche italiano poteva essere sequestrato, qualche decina di barconi potevano essere appunto inviati nel nostro Paese. Ci saremmo cioè trovati di fronte a una situazione simile a quella derivante dal sequestro iraniano di Cecilia Sala moltiplicata per mille. Non è che per disinnescare il caso Sala il governo italiano, in quel caso con l’approvazione dell’opposizione, abbia fatto cose di piccolo conto. Il fatto che in un dibattito parlamentare, per di più svoltosi in diretta tv, non ci si è misurati con questo non detto e per larga parte, con poche eccezioni, ci si è limitati a uno scambio di invettive non ha migliorato il prestigio del Parlamento. E al netto della propaganda prima o poi il Pd versione Schlein dovrà dire al Paese come si devono fare i conti con la Libia.
Ciò detto, caro direttore, per obiettività abbiamo un rilievo da avanzare anche nei confronti del governo. A nostro avviso, la questione andava affrontata di petto ponendo il segreto di Stato. Nel passato esso è stato posto in molte situazioni controverse. Basti pensare che Elisabetta Belloni, allora capo del Dis, lo ha posto anche sull’incontro in un’area di servizio fra Mancini e Renzi. Certo, Lo Voi ha contributo a complicare le cose svolgendo solo un ruolo da passacarte rispetto all’esposto di un cittadino. Ma comunque l’apposizione del segreto avrebbe messo tutti di fronte al senso di responsabilità rispetto alla sicurezza dell’Italia nei confronti di un Paese quale la Libia che rappresenta per noi una questione serissima che non può essere certo risolta con le invettive o con le torte in faccia alla Renzi.
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