Ma dai...
Dario Franceschini? Come si fa fotografare su "Repubblica" per fingere di lavorare
Come meccanico quale forse si sente, oltre che politico e romanziere, dall’autofficina romana dove ha sistemato il suo ufficio, e si è lasciato intervistare da Repubblica, l’ex ministro della Cultura Dario Franceschini ha destinato alla rottamazione Romano Prodi. Sia quello dell’Ulivo sia quello dell’Unione con le sue “300 pagine di programma assemblato prima delle elezioni” vinte nel 2006 ma vanificate dalla caduta e dal ritorno alle urne in meno di due anni. Un Prodi ripropostosi e riproposto nel metodo in queste settimane, fra convegni, interviste e altro, ad una segretaria del Pd, Elly Schlein, impegnata solo a parole, senza iniziative concrete e realistiche, a costruire prima delle elezioni un’alleanza alternativa al centrodestra.
Resosi finalmente conto della velleità della “vocazione maggioritaria” assegnatasi nella nascita dal Pd, incapace secondo lui di superare il minoritario 30 per cento dei voti, Franceschini ha proposto di rinviare a dopo le elezioni la ricerca e la formalizzazione delle alleanze. Lasciando che prima ciascun partito ostile al centrodestra raccolga per conto suo il massimo dei voti e mettendo nel conto, se non addirittura auspicando, che per aumentare la loro presa riformisti, moderati e quant’altri insoddisfatti della pur “generosa” Schlein, escano dal Pd e si mettano in proprio.
Evidentemente senza di lui, Franceschini, che rimarrebbe al Nazareno a presidiarlo, magari tessendo la tela di un nuovo segretario se la Schlein fosse travolta da un insuccesso. Ma questo lo penso per la solita, professionale malizia di chi segue la politica e ne scrive. A proposito di malizia, non so se la segretaria del Pd abbia apprezzato la sortita del suo sostenitore o non si sia interrogata pure lei sui rischi che potrebbe correre accogliendone proposte e suggerimenti, non foss’altro rispetto al traguardo propostosi di Palazzo Chigi, per quanto cerchi a parole di non dirlo, o lasci che lo dica e lo ripeta Matteo Renzi da quando si è proposto al cosiddetto “campo largo”. Che invece Giuseppe Conte gli ha sbarrato o ridotto senza allarmare Franceschini. Che, sempre nella sua officina, ha sostenuto che ormai il presidente delle 5 Stelle, o di ciò che ne è rimasto, si è spinto troppo avanti dalle posizioni del 2018 per sottrarsi, quando sarà, ad un’alleanza col Pd.
Il “meccanico” Franceschini si è spinto anche nella diagnosi di altri motori, come quello di Forza Italia del fu Silvio Berlusconi e dell’ora vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che, secondo lui, avrebbe inconsapevolmente, e forse immeritatamente, in tasca un biglietto della lotteria che Berlusconi non si sarebbe lasciato scappare se avesse avuto la fortuna di vivere ancora. Sarebbe una rottura con Giorgia Meloni, l’uscita dal centrodestra e un’autonoma, solitaria partecipazione alle elezioni per diventare in Parlamento l’ago della bilancia di qualsiasi maggioranza: il famoso “forno” unico rimproverato a suo tempo da un Giulio Andreotti avventuratosi a immaginare per la sua Dc, e a sinistra, il forno alternativo dell’allora Pci. Quello, a destra, dei liberali si era già disattivato da solo.
Ma poi lo stesso Andreotti, arrivato a guidare su designazione o rassegnazione di Aldo Moro due governi interamente democristiani appoggiati dai comunisti di Enrico Berlinguer, si rese conto della provvisorietà e dei rischi di quel secondo forno. Con Franceschini adesso della già ricordata vocazione maggioritaria del Pd da lui fondato nel 2007, ormai 18 anni fa, con Piero Fassino, Franco Marini e Walter Veltroni segretario. Che tuttavia nelle elezioni dell’anno dopo era già così poco convinto di quella vocazione da avere cercato di evitare lo scontro diretto ed esasperato con l’avversario Silvio Berlusconi, mai facendone il nome e chiamandolo solo “il principale esponente del campo avverso”. Che infatti vinse le elezioni del 2008 realizzando il suo quarto, pur ultimo governo.