Scontro
Cgil contro la Consulta sull'Autonomia: "Scelta che non capiamo"
Le alte magistrature vanno difese quando danno ragione alla sinistra e inguaiano la destra. Ma quando la sentenza va in direzione opposta, come quella che lunedì ha dichiarato inammissibile il referendum per abrogare la legge che attua l’autonomia regionale differenziata, allora le intenzioni di quei giudici diventano opache e il loro operato è contestato. È il trattamento che la Cgil sta riservando ora alla Corte costituzionale.
La confederazione di Maurizio Landini è stata tra gli organizzatori della campagna referendaria e la firma dello stesso segretario, simbolicamente, è la prima delle oltre cinquecentomila che hanno chiesto di fare quel referendum. Lui e il suo sindacato sono dunque i primi sconfitti. Le motivazioni si conosceranno in dettaglio nei prossimi giorni, ma intanto la Consulta ha spiegato che il quesito è stato bocciato perché «l’oggetto e la finalità non risultano chiari» e perché l’autonomia differenziata, prevista da una norma della Costituzione, «non può essere oggetto di referendum abrogativo». Landini l’ha presa male e ha reagito: «Non ho capito le ragioni che hanno portato la Corte ad assumere questo orientamento». Ha anche intimato al parlamento di fermarsi e rinunciare a correggere la legge: «È assolutamente necessario che il parlamento e il governo non procedano in quella direzione».
È stata però proprio la Corte costituzionale, nella sentenza sul ricorso presentato contro la legge Calderoli da quattro Regioni rosse, a invocare l’intervento delle Camere: «Spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge». La logica della Consulta è lineare: la Costituzione, nell’articolo 116, prevede che certe forme di autonomia possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario, se queste le richiedono; parte della legge di attuazione approvata dal parlamento è stata smontata dalla Corte costituzionale; è compito dei parlamentari, tenendo conto delle indicazioni della Corte, approvare ora una versione riveduta e corretta di quella legge. Una linearità alla quale Landini, però, si ribella per ragioni politiche. Va in scena così il duello a distanza tra la Consulta e il primo sindacato italiano. L’ex magistrato di Cassazione Giovanni Amoroso, che ieri, senza sorprese, è stato eletto presidente della Corte costituzionale dagli altri dieci giudici presenti, ha dedicato buona parte della conferenza stampa di inizio mandato proprio all’autonomia differenziata.
Sulla legge Calderoli ha ribadito quello che già si sapeva: «Senza un intervento del legislatore non c’è la possibilità di determinare i Lep», i livelli essenziali delle prestazioni, che debbono essere garantiti in modo uniforme in tutto il territorio nazionale. E questo perché «la corretta definizione dei Lep costituisce l’impianto della legge, di cui è rimasto solo un perno e intorno al quale va costruito ora l’edificio». Anche per le «materie non Lep», come già scritto nella sentenza di novembre, «c’è la necessità che intervenga il legislatore», quando queste incidono su «diritti civili e sociali». Sono le parole che piacciono a sinistra, dove Elly Schlein incassa la bocciatura del referendum più importante, quello che avrebbe potuto portare ai seggi gli elettori del Sud, spiegando che «la mobilitazione deve proseguire, dobbiamo assicurarci che i rilievi della Corte vengano recepiti». Ma le parole più dure Amoroso le ha usate per far capire ai delusi dalla bocciatura del referendum le ragioni della loro sconfitta: «Chiedere “volete o non volete l’autonomia differenziata” in un referendum è un interrogativo contra Constitutionem, non si può porre all’elettorato, perché riguarda una norma costituzionale, che è fuori dalla possibilità di referendum abrogativo».
Amoroso, peraltro, rispondendo ai giornalisti, ha detto di ritenere possibile che il legislatore aumenti il numero di firme necessarie per chiedere un referendum abrogativo. Il tetto attuale di cinquecentomila, infatti, si è dimostrato raggiungibile in pochi giorni grazie alla possibilità di apporle digitalmente. «L’asticella potrebbe, in ipotesi, essere più elevata, in ragione della maggiore facilità di sottoscrizione», dice il presidente della Consulta. Ricordando che la scelta appartiene ovviamente al parlamento, dove questa riforma costituzionale, in passato, è già apparsa in alcuni disegni di legge. Nessuna polemica, da parte sua, nei confronti delle Camere, che non hanno ancora eletto i quattro giudici costituzionali che sono chiamate a scegliere. Auspica «che il collegio possa essere reintegrato nel suo plenum», fatto di quindici membri, «quanto prima, giovedì», quando è prevista una nuova votazione. Fa presente però che «la Corte non è menomata dal fatto che ha lavorato in undici», essendo comunque il numero minimo previsto dalla legge.