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Il successo e le polemiche: c'è un filo che lega Aldo Moro a Giorgia Meloni
Credo di non abusare dell’amicizia di Aldo Moro, specie considerando le drammatiche circostanze della sua morte nel 1978, se racconto di uno sfogo che raccolsi da lui dieci anni prima, quando era ancora a Palazzo Chigi, alla guida del suo terzo governo di centro-sinistra, col trattino, e già avvertiva la smania dei colleghi di partito, e di corrente, di disfarsene. Lo accusavano neppure tanto dietro le quinte, con Flaminio Piccoli fra i più insofferenti fra i dorotei, come si chiamavano gli esponenti di quel gruppo dello scudo crociato, di avere troppo pazientato con i socialisti. Anzi, di averli troppo favoriti propiziando l’elezione del socialdemocratico Giuseppe Saragat al Quirinale alla fine del 1964, in sostituzione dell’ormai impedito Antonio Segni, e poi l’unificazione con i socialisti di Pietro Nenni, vice presidente del Consiglio.
L’unificazione socialista nelle elezioni politiche del 1968 diede modestissimi frutti ma pima aveva creato una certa apprensione fra i dorotei. Che però quando si trattò di rinnovare nella nuova legislatura l’alleanza con i socialisti pur frustrati dal risultato elettorale furono con loro ancora più pazienti o generosi di Moro. Essi offrirono col segretario uscente della Dc Mariano Rumor, dopo un governo balneare di Giovanni Leone, una edizione «più incisiva e coraggiosa» -testuale- del centro-sinistra, cominciando col togliergli il trattino, sino a rinunciare alla “delimitazione della maggioranza” praticata sino ad allora per marcare le distanze dai comunisti a sinistra e dai liberali a destra. Doveva aprirsi una stagione di “apertura al contributo” dei comunisti, pur dall’opposizione. Una stagione che Moro, scavalcando i dorotei dalla posizione di minoranza in cui costoro l’avevano spinto nel partito, tradusse nella sua famosa “strategia dell’attenzione”. Ne nacque una rincorsa a sinistra destinata a sfasciare la maggioranza. Moro, per tornare allo sfogo che raccolsi prima che la situazione precipitasse nei modi che ho sintetizzato, mi disse con una visione pessimistica di tutta la politica, e non solo del suo partito, di cui poi avrebbe ripreso il controllo pur dalla postazione defilata, statutariamente, di presidente del Consiglio Nazionale: «In politica», appunto, «ti perdonano l’errore, non il successo».
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Giorgia Meloni, che ha saputo e voluto rifarsi anche a Moro di recente per spiegare la sua visione dell’Europa, a costo di spiazzare e scandalizzare la sinistra, ne sta sperimentando forse l’amarezza assistendo al bailamme inscenato attorno alla sua fulminante missione da Donald Trump, nella residenza privata del presidente. Diversamente da Moro, tuttavia, la premier guida una coalizione, ma soprattutto un partito, il maggiore di tale coalizione, più unito. Lei ha i suoi dorotei non in casa, nella maggioranza, ma tutti all’opposizione, nelle dimensioni più varie del cosiddetto “campo” dell’alternativa: “largo” sino a Matteo Renzi o ristretto come lo vorrebbe Giuseppe Conte. Che è preso come in una tenaglia da due paure: quella nei riguardi della segretaria di un Pd che per le sue dimensioni sta agli altri come un albero ai cespugli, e quella nei riguardi di Beppe Grillo. Di cui ora l’ex premier teme il silenzio sopraggiunto ai funerali improvvisati, pur senza bara e fiori, del MoVimento 5 Stelle, sapendo che nel prossimo, prevedibile scontro egli rischia di uscire male persino come avvocato, perché il terreno della battaglia sarà soprattutto giudiziario. In questa situazione, essendo queste le forze in campo e le loro condizioni, per quanto aiuto possano avere i suoi avversari da un’informazione che inventa più di raccontare, che aizza più di registrare, che partecipa più di osservare, che si avvolge più nei fantasmi che nella carta o nei tubi elettronici, la Meloni ha molti meno problemi di quanti non le attribuiscano gli avversari. E ancor meno ne avrà dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca e le sorprese - credo - che ne deriveranno.
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