Albania, riaprono i centri: ecco il piano del governo (con la sponda Ue)

Fausto Carioti

Bisogna tornare indietro di pochi giorni, al Circo Massimo e alla promessa scandita da Giorgia Meloni sul palco di Atreju: «I centri in Albania fun-zio-ne-ran-no». Il resto è conseguenza di questa volontà politica. E la premier non è tipo da prendere certi impegni col suo popolo senza avere già programmato i passi successivi. Ieri, dunque, vertice di governo a palazzo Chigi, presenti con lei tutti quelli che ci devono essere: Matteo Piantedosi, Guido Crosetto, Tommaso Foti e Alfredo Mantovano, più Antonio Tajani collegato da remoto. Il risultato è un comunicato in cui Meloni e i suoi confermano «la ferma intenzione di continuare a lavorare sulle cosiddette “soluzioni innovative” al fenomeno migratorio». Si va avanti, insomma. I due hub italiani in territorio albanese, quello nel porto di Shengjin, per le procedure d’ingresso degli immigrati, e quello nell’entroterra, a Gjadër, per l’esame delle loro richieste d’asilo, ricominceranno ad essere usati molto presto.

«Mai pensato di rinunciare ai centri in Albania», spiegano al governo al termine del vertice. L’elenco dei motivi è lungo e in cima c’è la sentenza pubblicata dalla Corte di Cassazione il 19 dicembre. Lì gli ermellini stabiliscono che il giudice «non si sostituisce all’autorità governativa sconfinando nel fondo di una valutazione discrezionale a questa riservata», ossia la stesura della lista dei Paesi di origine sicuri, i cui cittadini possono essere trattenuti in Albania e rimpatriati se la loro domanda di protezione viene rifiutata. Né può annullare «con effetti erga omnes» quel provvedimento, ma solo pronunciarsi sul caso del singolo richiedente. Motivo per cui al Viminale sono soddisfatti della decisione della Cassazione. A maggior ragione perché essa riguarda una vicenda risalente a quando la lista dei Paesi sicuri era contenuta in un decreto ministeriale, dunque in un semplice atto amministrativo: è stata poi inserita in un decreto legge, cioè in una norma di rango primario, che l’ha resa ancora meno attaccabile da parte dei magistrati.

Un altro motivo per cui il governo non intende rinunciare all’Albania è legato al giugno del 2026, quando entrerà in vigore il nuovo Patto Ue per l’asilo e la migrazione. Questo imporrà la «procedura accelerata» di controllo per i richiedenti asilo provenienti dai Paesi d’origine sicuri, i quali dovranno essere trattenuti alla frontiera e rimpatriati nel caso in cui la loro domanda sia respinta. Le procedure a carico di ogni Paese Ue saranno moltissime (nel primo anno l’Italia potrà esaminarne al massimo 16mila, poi aumenteranno) e questo significa che servirà spazio nei Centri di permanenza per i rimpatri e nelle strutture analoghe. Quelli sul territorio italiano oggi riescono a ospitare poco più di mille migranti; gli hub costruiti in Albania, già pronti all’uso, garantirebbero posto ad altri tremila, quadruplicando quindi la capienza: spazio al quale l’Italia non può rinunciare. E il trattenimento dei migranti in Paesi esterni all’Unione, come l’Albania, è compatibile con il Patto Ue.

Ulteriore ragione per cui a palazzo Chigi tireranno dritto è la deterrenza. I segnali giunti al governo dai Paesi di partenza confermano che il rischio di vedere i passeggeri portati in Albania, anziché in Italia, sta rovinando il business dei trafficanti di uomini. Il biglietto per una traversata può costare sino a tremila, quattromila euro: cifra che un migrante non è disposto a pagare se sa che potrebbe ritrovarsi a Gjadër anziché a Lampedusa. Il governo confida pure nel cambio di “interlocutore” giudiziario. Con un emendamento al decreto Flussi, ha trasferito alle Corti d’appello le decisioni sui trattenimenti dei migranti, che sinora sono state prerogativa dei giudici delle sezioni immigrazione dei tribunali. Se ha fatto questa mossa, è perché si attende dalle toghe delle Corti d’appello decisioni meno ideologizzate.

Se mai ce ne fosse stato bisogno, gli ultimi vertici internazionali hanno rafforzato la convinzione della premier. Ieri ha raccontato ai suoi ministri ciò che è avvenuto al Consiglio Ue di Bruxelles: nel documento conclusivo si concorda sulla necessità di contrastare l’immigrazione irregolare anche attraverso «nuovi modi in linea con il diritto dell’Ue e internazionale», l’aumento e l’accelerazione dei rimpatri e gli accordi con i Paesi di origine sicuri. E prima di questo incontro si era svolto il vertice ristretto dei leader europei più motivati a contrastare l’immigrazione, al quale hanno partecipato in dieci, oltre alla stessa Ursula von der Leyen. Tutti, inclusa la presidente della Commissione, hanno concordato sulla necessità di avere in tempi rapidi una direttiva per i rimpatri, una lista “ufficiale” europea dei Paesi sicuri e la possibilità di usare hub per i rimpatri in Paesi terzi, come quelli che l’Italia ha in Albania. A tutti conviene che “l’esperimento italiano” funzioni.