Ritratto al veleno
Giulia Bongiorno, il veleno di Repubblica: come titolano dopo il capolavoro Open Arms
Lei vince nell'aula bunker di Palermo, firmando un piccolo capolavoro, e nella redazione di Repubblica la prendono male. Anzi, malissimo. In Tribunale è l'avvocato Giulia Bongiorno la protagonista dell'assoluzione di Matteo Salvini nel processo Open Arms, tanto che lo stesso vicepremier e leader della Lega, assolto con formula piena "perché il fatto non sussiste" dalle accuse di sequestro di persona e rifiuto d'atti d'ufficio, dopo aver baciato commosso la compagna Francesca Verdini regala proprio ai suoi legali difensori il primo tributo, ringraziandoli per il "lavoro straordinario" di tutti questi mesi.
L'assoluzione era auspicata da Salvini, ma non scontata vista la delicatezza anche politica della posta in palio e qualche precedente delle sentenze sul dossier immigrazione. E lo stesso slittamento della sentenza di oltre un'ora e mezza lasciava intendere sul grado di incertezza nello stesso collegio giudicante.
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A Repubblica, si diceva, forse si aspettavano una condanna esemplare. Magari si sarebbe accontentati di un 50 e 50, la condanna solo per rifiuto d'atti d'ufficio come circolava a un certo punto della giornata di ieri. Invece l'assoluzione tonda, un trionfo per la linea difensiva. E a pagina 7, alla fine, sfugge questo titolo al quotidiano diretto da Mario Orfeo: "I due volti tra toga e politica. Spietata Bongiorno regina della difesa". Impossibile non riconoscere i meriti della legale, nonché ex ministra. Per compensare, allora, ecco quel velenoso "spietata", suggerendo il fatto che per difendere il suo assistito abbia dovuto calpestare i migranti. Eppure era stata la stessa Bongiorno, a botta calda, a parlare di "una sentenza non contro i migranti, ma contro chi li sfrutta".
La Bongiorno, si legge, "si appunta al petto un’altra medaglia — dopo le assoluzioni di Andreotti, Sollecito, Ghedini e tanti calciatori da riempire un paio di spogliatoi — proprio nell’aula che avrebbe potuto farle da camera ardente. Già, perché durante una delle udienze del processo a Salvini, un lastrone di marmo si staccò dal soffitto e la mancò per un centimetro".
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Si ricorda una sua vecchia intervista a La7 proprio in relazione a quella sventura ("Penso di essere la destinataria di un miracolo") e si suggerisce che "questa vittoria processuale le darà altro materiale per la costruzione del suo personale piedistallo, quello di principessa del foro, proprio come il suo primo mentore Franco Coppi".
Sono tre le qualità che Repubblica le riconosce: "Una determinazione d’acciaio, una grande furbizia tattica e un’altrettanto grande disinvoltura politica, che la porterà ad abbracciare prima il verbo antiberlusconiano di Gianfranco Fini, poi la vedrà transitare tra le truppe liberal dei montiani di Scelta civica per finire lei — femminista e meridionale — nel partito più maschilista e antimeridionale d’Italia, la Lega. Un capolavoro di voltagabbanismo".
Fatto imperdonabile, perché Francesco Bei scrive: "Da quel momento in poi è venuta fuori un’altra Bongiorno, in versione Cattivissimo me. Come il personaggio Gru, deve fare la cattiva per essere credibile come leghista". Il gran finale, una nota privatissima ("In questa cavalcata tra il Parlamento e le aule di giustizia, Bongiorno — da single — decide di avere un figlio e ce la fa a 44 anni. Lo considera, forse, il suo unico insuccesso: «Fare un figlio a quell’età è un grande fallimento nella vita»") emerge una certezza: il dubbio che Salvini sia effettivamente innocente, Bongiorno o non Bongiorno, non sfiora nemmeno quelli di Rep.