L'analisi

Giorgia Meloni, ecco perché ha citato Aldo Moro: le parole che hanno fatto impazzire la sinistra

Francesco Damato

L’Aldo Moro che Giorgia Meloni ha voluto citare e condividere parlando in Parlamento alla vigilia del Consiglio europeo di sostanziale avvio della legislatura uscita dalle elezioni continentali di giugno è del 1974. Il Moro presidente del Consiglio di un bicolore Dc-Pri, con Ugo La Malfa vice presidente, durato dal 23 novembre di quell’anno al 7 gennaio 1976, quando l’allora segretario del Psi Francesco De Martino gli ritirò l’appoggio esterno annunciando che i socialisti non sarebbero mai più tornati in una maggioranza senza la partecipazione dei comunisti.

Seguì a quella crisi il quinto e ultimo governo Moro, composto di soli democristiani e destinato a gestire le elezioni anticipate di giugno del 1976. Che si conclusero con «due vincitori», come lo stesso Moro definì la sua Dc e il Pci guidato da Enrico Berlinguer, incapaci di governare numericamente in Parlamento l’uno contro l’altro, pur essendosi proposti in posizione alternativa agli elettori. Seguirono due monocolori democristiani presieduti da Giulio Andreotti ma praticamente concordati nel programma e nella composizione fra lo stesso Moro e Berlinguer all’insegna della politica di cosiddetta “solidarietà nazionale”. Che fu una variante del ben più stringente “compromesso storico” perseguito dal segretario del Pci per evitare che l’Italia finisse come il Cile, passato da un governo di sinistra ad uno militare di destra a regìa americana.

Dalla “solidarietà nazionale”, attraverso un passaggio elettorale del 1979 anch’esso anticipato, con Moro ucciso l’anno prima dalle brigate rosse, si uscì un po’ per l’indisponibilità di Berlinguer ad accettare il riarmo missilistico della Nato- che avrebbe alla fine portato al crollo dell’Unione Sovietica - e un po’ per il coraggio restituito da Bettino Craxi ai socialisti di governare con la Dc avendo i comunisti all’opposizione.

 

Vi ho elencato dati e fatti tutti precedenti o quasi immediatamente successivi alla nascita non solo politica ma persino anagrafica di Giorgia Meloni, intervenuta il 15 gennaio 1977. Ve li ho elencati per sottolineare lo studio che deve avere preceduto e motivato la decisione della premier, ieri, di rifarsi a Moro alla vigilia, ripeto, dell’importante Consiglio europeo alla quale parteciperà per condividerne l’idea di Europa: «il luogo - disse lo statista democristiano in cui le nazioni diventano più grandi senza perdere la loro anima, una casa comune per le differenze».

Si tratta delle stesse differenze, pur a 50 anni di distanza, che hanno permesso e permettono alla Meloni, e alla destra italiana che lei guida e rappresenta, di dissentire prima dalla conferma della tedesca Ursula von der Leyen, per quanto diventata sua amica, alla presidenza della Commissione europea e poi di parteciparvi con Raffaele Fitto nella doppia veste concordata di commissario e vice presidente.

Con questo significativo richiamo a Moro la Meloni ha spiazzato come più clamorosamente non potesse fare tutti quelli che a sinistra e nel pur fantomatico centro, sempre alla ricerca di un federatore o simile, ne contestano l’affidabilità come partner europea. Per giunta “la più potente” - per riconoscimenti mediatici e politici internazionali - di fronte alle crisi che attraversano la Francia e la Germania, abituate per troppi anni a considerarsi le padrone d’Europa, o quasi.

Fra i più spiazzati dalle parole e dagli studi della Meloni penso si possa e si debba indicare l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, guadagnatosi quello che meritava dalla Meloni alla chiusura della festa di Atreju, al Circo Massimo, per avere cercato di macchiettizzarla come una leader sì ma «obbediente» agli ordini delle consorterie di turno, al di là e al di qua dell’Atlantico. Questa di una Meloni morotea è l’ultima tranvata - come si dice a Roma che poteva capitare a Prodi: l’uomo non dimentichiamolo - di una famosa e, a dir poco, inquietante seduta spiritica proprio durante il sequestro Moro.

 

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