A volte ritornano

Romano Prodi dietro al "centrino" rosso: retroscena, perché è una minaccia per Elly Schlein

Pietro Senaldi

Riportano le cronache politiche che Romano Prodi si sia inorgoglito per il fatto di essere stato attaccato nel discorso finale tenuto da Giorgia Meloni ad Atreju. «Se la premier mi risponde con toni così duri, significa che mi considera influente e che ci ho preso», avrebbe confidato alla Stampa l’antico capo dell’Ulivo, il quale, ingenerosamente, aveva giustificato il successo internazionale dell’attuale presidente del Consiglio con il fatto che «è una che obbedisce». «Ho brindato con il mio vino migliore agli improperi isterici di Prodi; uno che ha svenduto l’Iri, ci ha fatto entrare nell’euro come sappiamo e ha aiutato in modo determinante la Cina. Di obbedienza, se ne intende», ha replicato la premier, sentenziando che «ogni patriota deve fregiarsi delle accuse del professore».

La domanda è se Romano abbia ragione a godere e sentirsi importante per i giudizi affilati di Giorgia. Più no che sì. Chi conosce bene Meloni, spiega che i suoi strali non sono indice di timore, ma ne rivelano il carattere, non incline a sorvolare sulle critiche ingiustificate e votato a togliersi i sassolini dalle scarpe. Il professore l’aveva detta troppo grossa per restare impunito, un po’ come il bue che dà del cornuto all’asino. E poi, questo sì, il bersaglio era così ghiotto che non si poteva rinunciare ad affondare il colpo: attaccare Prodi alla festa di Fratelli d’Italia è tentazione irrinunciabile, un gol a porta vuota; prima di farlo, sai già che i tifosi esploderanno di gioia.

Infine, prendersela insieme con il fu leader dell’Ulivo, il capo della Cgil, Maurizio Landini, la leader dem, Elly Schlein, e il mesto scrittore Roberto Saviano, significa mettere tutti nello stesso pentolone; non elevare, ma livellare. Meloni ha voluto fare capire che, per lei, la segretaria del Pd non è più la rivale, ma uno dei tanti ingredienti del minestrone dell’opposizione. La constatazione del caos che impera a sinistra non può che darle ragione.

 

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Quanto al professore, è stato doveroso ricordare che, quando era a capo dell’Europa, non faceva il gioco dell’Italia. D’altronde, ai tempi a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi, che Prodi detestava al punto che arrivò a lamentarsi con Helmut Kohl per aver accolto Forza Italia nel Partito Popolare e a raccomandarsi affinché tenesse il Cavaliere ai margini dell’Unione. Ne nacque perfino una protesta ufficiale della Margherita a Bruxelles. Che si trattasse di sudditanza verso Berlino, o di livore verso Arcore, di certo fu una pagina buia, che ha lasciato strascichi che si fanno sentire ancora oggi, se si pensa alla recente battaglia dem contro la vicepresidenza della Commissione Ue a Raffaele Fitto.

Sono passati oltre vent’anni, ma l’ex premier non ha mutato tempra. Ha sempre qualcosa che non gli gira per il verso giusto. Il suo problema però, più che Meloni, si chiama Schlein. Il professore, come tutta la cosiddetta sinistra moderata, vede i limiti della segretaria e si sente a disagio per un Pd troppo spostato a sinistra. Vorrebbe almeno che gli fosse riconosciuto il ruolo di padre nobile e soffre del fatto che Elly se lo fili poco, quindi si agita e dà colpi di coda. Già sette-otto mesi fa creò un guaio non da poco alla signora, impedendole di presentarsi per le Europee in tutta Italia, dichiarando che farlo «sarebbe stato un problema per la democrazia».

Più di recente, Prodi è stato tra i grandi ispiratori della candidatura a federatore del centro dell’esattore Ernesto Maria Ruffini: gli ha scritto la prefazione al libro L’evasione spiegata a un evasore, fa fare incontri esplorativi al suo deputato di riferimento all’interno del Pd, il bolognese Antonio De Maria. In lui convivono l’inquietudine per il destino di una sinistra targata Schlein e il fastidio verso i dem per una mancanza di riconoscimento che ritiene dovuta, e comunque mai sufficiente.

 

Naturalmente poi, trattandosi di Pd, nulla è mai chiaro. Sul Corriere della Sera di ieri, Paolo Mieli, che da direttore, nel 2006, fece un’inconsueta dichiarazione di voto a favore di Prodi premier e che oggi è probabilmente tenuto dal Nazareno più in considerazione del professore, ha messo alla sbarra tutti i centrini della sinistra, scrivendo che, tra rivalità e sgambetti, non fanno che portare voti a Forza Italia. Chissà se questo non è un modo per indicare una via, diversa da quella che ha in mente Prodi: il problema non è individuare un capo-cespugli che incerotti tutto, ma coagulare un gruppo che si dia una fisionomia politica e magari anche un leader.

Un processo che potrebbe avvenire anche all’interno del Pd, ma che comunque avrebbe Prodi come spettatore e non come regista. La sensazione è che ormai il professore torna protagonista solo quando Meloni si occupa di lui. Sfrattato due volte da Palazzo Chigi dai compagni e fermato sempre da loro sulla via del Quirinale quando aveva già un piede dentro, il grande bolognese dovrebbe guardarsi più alla sua sinistra che alla sua destra.