Battaglie
Da Thatcher e Reagan a Milei: la via del liberalismo davanti all'Occidente
«Io disprezzo lo Stato, sono dentro per distruggerlo». È questa una delle frasi ad effetto che Javier Milei ha pronunciato nel corso della sua trasferta romana. La memoria dei più anziani è corsa subito a Margaret Thatcher e al Ronald Reagan di «affamare la Bestia». Era infatti da mezzo secolo che un Presidente di uno Stato democratico non affermava in maniera così coerente e radicale la sua fede liberale, deciso a metterla in pratica.
Oggi come negli anni Ottanta un clima favorevole sembra favorire una sana iniezione di liberalismo in Occidente. Lo stesso programma economico di Donald Trump, basato sul delle tasse e appoggio alla classe media e agli imprenditori, nonché su un’ampia sburocratizzazione, è a forti tinte liberali, mentre quella dei dazi sembra essere più che altro un’arma a scopo negoziale.
Per quanto possano essere suggestive, le comparazioni storiche vanno usate con prudenza. In questi cinquant’anni molte cose sono cambiate nel mondo, mentre qui in Occidente la battaglia liberale non si gioca più principalmente terreno economico ma anche su quello culturale. Da questo punto di vista, la vittoria elettorale di Trump è altamente significativa, non potendo egli considerarsi un liberale in senso classico come sicuramente è invece Milei.
Ciò che però può dirsi è che la sua idea di “rifare grande” il proprio Paese può essere adattata senza difficoltà anche agli altri protagonisti qui citati. Quando Thatcher e Reagan presero il potere, nei loro rispettivi Paesi si avvertiva un clima di declino: crisi economica e perdita di competitività dei settori industriali portanti (a cominciare dal manifatturiero), stagflazione, disoccupazione, agitazioni sociali e sindacali (soprattutto in Gran Bretagna). Come è noto, la battaglia condotta su più fronti per tutti gli anni Ottanta sortì effetti clamorosi: la Gran Bretagna si riprese da quella che sembrava una lenta agonia e l’Occidente tutto sconfisse il suo nemico storico.
L’illusione che segnò la fine di quel periodo, cioè quella del trionfo definitivo del modello liberale e di una leadership globale dell’America, furono presto infrante, come è noto. Se ai tempi di Thatcher e Reagan il capitalismo e il liberalismo erano chiamati a combattere il marxismo e i vari socialismi secondo una linea divisoria classica e sperimentata, nei decenni successivi si assistette alla maturazione di una nuova ideologia che conquistò ampie fette delle classi dirigenti occidentali e “inquinò” anche il mondo che un tempo si sarebbe detto capitalistico.
Ad un Milton Friedman, ispiratore di Reagan e Thatcher, che elevava il profitto ad unico e proficuo fine dell’attività economica, la nuova cultura mainstream ha sostituito un’idea di economia “equa e solidale”, ricalcata sui presunti valori “etici” del politically correct. Immutati i capisaldi dirigisti e costruttivisti del nuovo progressismo, l’universo simbolico e dei valori ha quasi preso il sopravvento su quello economico. Il dispositivo illiberale del controllo in funzione di un escludente “pensiero unico” si è fatto più pervasivo anche per la crescita esponenziale del cosiddetto “capitalism cognitivo” e del sistema dell’informazione. La Bestia da affamare è oggi un sistema integrato ove etica ed economia se la giocano alla pari, ove la comunicazione è importante come mai e le capacità comunicative dei leader devono servirsi di iperboli anche lessicali (ad esempio la “motosega” di Milei). Anche se il leader argentino, che è prima di tutto un affermato economista, insiste, per la drammatica situazione del suo Paese, sugli aspetti economici, il nuovo senso della battaglia liberale gli è ben chiaro. Lanciando l’idea di una «internazionale della destra», ha affermato senza ombra di equivoci che «la società occidentale ha detto basta all’ideologia woke ed è in cerca di nuovi valori». La battaglia contro la nuova Bestia non sarà facile e l’esito non è scontato. Ma l’esempio degli anni Ottanta induce ad essere, come Milei, almeno un po’ ottimisti.