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Gli ebrei celebrano il tempio e fanno i conti con l'odio

Fausto Carioti

L’anniversario della fondazione del tempio maggiore israelitico, eretto nel 1904 nel luogo in cui gli ebrei romani vivono dai tempi di Cesare e Pompeo, non può essere una festa, perché questo non è solo il posto dei matrimoni. È anche l’edificio che porta impressi i segni dei sigilli messi dai nazisti e il luogo dove, nel 1982, i terroristi palestinesi uccisero Stefano Gaj Taché, di appena due anni. Quanto all’oggi, per avere un’idea di ciò che stanno vivendo gli ebrei italiani basta leggere i proclami di chi protesta nelle università o va in piazza con la bandiera palestinese.

È qui, al ghetto ebraico, che il 5 ottobre puntavano i manifestanti pro-Pal fermati dalla polizia. È purtroppo normale, quindi, che al termine della celebrazione per i 120 anni della grande sinagoga, con Sergio Mattarella, Ignazio La Russa e mezzo governo in prima fila (pochissimi esponenti del Pd, non pervenuti Cinque Stelle e Avs, ma non è una novità), restino impressi tre momenti che non sono di gioia.

 

Il primo è quando l’ex direttore di Repubblica Maurizio Molinari, “conduttore” della cerimonia, in un discorso peraltro pacato, denuncia la «sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo» e scatta l’applauso collettivo. Una reazione che riflette la tensione in cui vivono gli ebrei italiani, quello che pensano di chi usa le critiche a Israele per coprire il nuovo odio nei loro confronti. Il secondo è un passaggio particolarmente duro del discorso di Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica romana.

Dopo aver ringraziato «il governo italiano e le istituzioni, che ci manifestano ogni giorno solidarietà contro un antisemitismo in crescita», Fadlun denuncia «la forma di odio per cui le donne vittime di violenza il 7 ottobre non sono riconosciute come tali». Il riferimento è innanzitutto alle femministe scese in piazza a sostegno di Hamas, o indifferenti dinanzi alle uccisioni agli stupri compiuti dalla “resistenza” palestinese.

Per generazioni di ebrei questo è il periodo più difficile delle loro vite, e lo si capisce quando Fadlun ringrazia «tutte le forze dell’ordine che vigilano sulla sicurezza dei nostri figli come fossero i propri», e chiede al capo dello Stato di continuare a essere «baluardo di diritto e giustizia», a tutela anche degli italiani di fede ebraica. Lo stesso appello, poco dopo, viene rivolto a Mattarella dal rabbino capo Riccardo Di Segni: «Signor presidente, la nostra comunità guarda a lei come il primo garante». Proprio a Di Segni, religioso di cultura profonda e attento alle parole, si deve il terzo momento destinato a restare nella memoria. Succede quando commenta il passaggio della Genesi, primo libro della Torah, in cui si legge che arrivò il diluvio perché «la terra si era corrotta e riempita di violenza».

«Con una sinistra evocazione», nota Di Segni, «la parola “violenza” traduce il termine ebraico biblico, che è “hamàs”. Sì, proprio hamàs». Pure lui insiste sull’importanza del periodo che l’occidente e gli ebrei stanno vivendo: «Dopo le turbolenze del secolo scorso, basate su ideologie e nazionalismi, il primo quarto di questo secolo sta conoscendo altre forme di turbolenze sanguinose. Il mondo occidentale sembra quasi impotente a fronteggiare le nuove sfide». Eppure, ammonisce, «ogni società, anche la più solida, è a rischio, se non avverte i sintomi della crisi e non vi pone riparo per tempo».

La cerimonia dura un’ora. Al termine, Mattarella esce tra gli applausi. Antonio Tajani si avvicina ai giornalisti, anche lui appare preoccupato. Dice che «in Europa ci sono troppi rigurgiti antisemiti e messaggi negativi. Non si può confondere la critica legittima al governo di Israele con la lotta al popolo ebraico. Sono due cose completamente diverse, ma mi pare che in troppi, oggi, le facciano coincidere».