Centri sociali da chiudere
Bologna, quei rigurgiti del '68 violenti e intollerabili
Sono passati tanti anni dal Sessantotto, molti dei leader di quella stagione sono diventati parte dell’establishment ufficiale (spesso non perdendo vizi e arroganza del tempo), il comunismo non è più un ferro utilizzabile, eppure i cosiddetti “centri sociali” che nacquero allora sono ancora tanti e diffusi sul territorio nazionale, soprattutto nelle grandi città. Né si può dire che il tempo li abbia trasformati più di tanto: le idee che vi circolano e il radicalismo estremistico che li caratterizza è sempre le stesso. E sfocia spesso in atti di violenza contro i nemici politici e soprattutto contro le forze dell’ordine. Non è facile capire perché i centri sociali continuino a suscitare un certo fascino verso giovani più o meno sbandati e alla ricerca di una loro identità. Non va tuttavia dimenticato che fra coloro che li animano non è difficile trovare anche qualche attempato protagonista della prima ora, sempre convinto che la rivoluzione sia ormai prossima e che lo “Stato borghese” stia per cadere sopraffatto dalle sue contraddizioni. Ecco, per capire come nacquero i primi centri sociali bisogna immergersi un po’ nel clima politico e sociale che caratterizzò gli anni Settanta. Si affacciava allora sulla scena una generazione di giovani che si sentiva insoddisfatta della società in cui viveva, che sognava utopisticamente un mondo diverso e pacificato, fatto di amore e giustizia sociale. Ma, come si sa, le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. (...)
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