Italia paralizzata
Maurizio Landini, il suo sciopero era politico: ecco le prove
Se parlate con un sindacalista dei trasporti vi dirà che lo sciopero che venerdì ha messo in ginocchio le principali città italiane ha riguardato solo alcune aziende in cui si applica il Ccnl degli autoferrotranvieri e internavigatori (e non quelle in cui si applica un altro Ccnl, attività ferroviarie), scaduto da tempo, che si tratta di una vertenza legittima e che, in ogni caso, l’astensione dal lavoro è un diritto sancito dall’articolo 40 della Costituzione. Tutto vero. E lasciamo stare che la Carta prevede anche il diritto alla mobilità dei cittadini per recarsi al lavoro, in vacanza, dai parenti o dovunque vogliano.
I dettagli dei contratti dei lavoratori, le comprensibili mobilitazioni per negoziare con l’azienda migliori condizioni economiche e organizzative e il sacrosanto esercizio di una facoltà prevista dalla legge, compresa quella fondamentale della Repubblica, si scontrano però con le parole di un altro sindacalista che da quattro anni, ancor prima di sapere cosa ci sia scritto dentro, proclama scioperi generali (il prossimo è fissato per il 29 novembre) contro la manovra di bilancio, che scende frequentemente in piazza contro il premierato, contro le politiche sull’immigrazione, contro l’autonomia differenziata, contro la separazione delle carriere dei magistrati, contro il “genocidio” di Israele, contro le derive autoritarie, contro le discriminazioni di genere e razziali, contro il tradimento dei valori antifascisti. E che proprio nei giorni dello sciopero selvaggio dei trasporti (che non ha rispettato le fasce di garanzia) ha ribadito con forza la sua idea che in Italia ci sia la necessità di «una rivolta sociale».
Allora bisogna intendersi. Lo sciopero di venerdì è legato ad una vertenza contrattuale o è il tentativo di innescare una “rivolta sociale”? No, perché nel secondo caso l’obiettivo sembra a portata di mano. Ma la rivolta non sarà, come spera Maurizio Landini, contro il governo, ma contro i sindacati che impediscono ai cittadini di recarsi al lavoro, di andare a scuola, di fare una visita medica o una gita di piacere. Verrebbe da dire che la deriva politica del leader della Cgil, stigmatizzata pure dalla Cisl (che però venerdì ha deciso di non tirarsi indietro) è diventata il peggior nemico non solo dei lavoratori, ma anche dei sindacati che cercano di fare il loro mestiere, che è e resta quello di protestare contro le aziende che non garantiscono dignitose ed adeguate condizioni economiche e organizzative dell’attività produttiva, che non tutelano la sicurezza degli addetti, che non si preoccupano di concedere un giusto equilibrio tra vita lavorativa e vita privata.
«Non si proclama uno sciopero di questa portata alzando la palla a uno sciopero generale imminente», spiega l’ex sindacalista Giovanni Luciano prendendosela con le sigle che hanno seguito Landini, «soprattutto, visto che la legge sullo sciopero te lo consente una volta sola a vertenza, non usi adesso l’arma atomica della mancanza delle fasce di garanzia. Questo è un autogol clamoroso, che ha portato danni a una categoria incolpevole, che non solo non avrà il contratto a breve, ma alla quale, già lo immagino, la Commissione di Garanzia perla legge nei servizi pubblici essenziali, sull'onda della protesta delle persone, non mancherà di propinare qualcosa per inasprire ulteriormente le norme su quello che è un diritto già molto compresso e compromesso».
Il ragionamento non fa una grinza. Epperò i dati dimostrano che alla fine i sindacati, anche a costo di andare contro i loro interessi, il richiamo della Cgil fanno fatica a non seguirlo. Se prendiamo il settore dei trasporti, quello più sensibile dove le proteste dei lavoratori fanno più male e finiscono sulle prime pagine dei giornali, nei 536 giorni del governo Gentiloni sono stati proclamati e poi realmente effettuati 16 scioperi nazionali nel settore ferroviario e 7 in quello del trasporto pubblico locale. Nei 527 giorni del governo Conte II nelle ferrovie ci sono state 10 proteste nazionali e nel Tpl appena 4. Volete sapere quante mobilitazioni di carattere nazionale ci sono state sotto il governo Meloni, in carica da 749 giorni? 54 nel settore ferroviario e 34 in quello del trasporto locale.
Ora, può anche essere che negli ultimi due anni si siano moltiplicate le vertenze aziendali e contrattuali. Ma la forte sensazione è che gran parte del mondo sindacale, tranne ovviamente alcune eccezioni, sia finito, consapevolmente o meno, nella trappola del “landinismo”: alzare o meno il livello dello scontro in base a chi c’è a Palazzo Chigi. Il che significa fare politica sotto mentite spoglie. Solo che a lui, se le cose gli vanno bene, arriveranno i dividendi, mentre agli altri arriveranno solo le perdite. Paralizzare l’Italia nel nome della rivolta sociale antigovernativa può entusiasmare il popolo della sinistra e forse (ma non è detto) anche gli iscritti alla Cgil. Ma è la morte del sindacato. Che già non se la passa troppo bene.