L'ex premier
Anche Mario Draghi zittisce i gufi anti-Trump
Chissà se qualcuno ieri ha applaudito Mario Draghi, come accadeva spesso qualche anno fa in Italia, quando ha detto che sicuramente «la presidenza Trump farà grande differenza nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Europa». Ma «non necessariamente tutto in senso negativo». Chissà se qualcuno prima o poi si renderà conto che a bloccare le iniziative comuni della Ue per rilanciare la competitività e difendere le sue imprese non sono i sovranisti o Viktor Orban, perennemente sotto accusa e con margini di manovra assai ristretti, ma i socialisti di Olaf Scholz o i “liberali” (si fa per dire) di Emmanuel Macron, che hanno finora regnato sul Vecchio Continente. Chissà quando i partiti e la stampa di sinistra capiranno una volta per tutte che i nemici non stanno dall’altra parte dell’Oceano, ma ce li abbiamo in casa.
Per capirlo, del resto, non ci vuole un genio. Basta guardare quello che accade quotidianamente nel Vecchio Continente. Mentre tutti si strappano i capelli per l’imminente guerra commerciale che asfalterà l’Italia e l’Unione, snocciolando cifre a casaccio su quali e quanti danni provocheranno i dazi di Trump, ieri al Consiglio europeo informale di Budapest è andato in scena un po’ di buon senso. «Ci sono grandi cambiamenti in vista. Quello che l'Europa non può più fare è posporre le decisioni», ha spiegato Draghi. In particolare, secondo l’ex premier, l'amministrazione Trump «darà ulteriore grande impulso al settore tecnologico, dove noi siamo già molto indietro» e dove «noi dovremo agire». E «sicuramente Trump proteggerà anche le industrie tradizionali, che sono quelle in cui noi esportiamo di più negli Usa. E lì dovremo negoziare con uno spirito unitario in maniera da proteggere i nostri produttori europei», ha aggiunto.
Quanto ai dazi, ha detto il premier ungherese, «sarà una negoziazione dura, perché è ovvio che Trump si presenterà con idee commerciali sicuramente al servizio degli interessi degli Stati Uniti più che di quelli europei. Dobbiamo resistere e negoziare, e poi alla fine dovremo fare un accordo. Se saremo bravi a negoziare, l'accordo sarà buono». «Per fronteggiare il Make America great again serve un Make Europe great again», ha insistito il leader magiaro allineandosi di fatto a Draghi. E sulla stessa lunghezza d’onda c’è anche Giorgia Meloni che, parafrasando Kennedy ha detto: «Non chiederti cosa gli Stati Uniti possono fare per te, chiediti cosa l'Europa debba fare per se stessa».
Ecco, cosa deve fare l’Europa per se stessa? « La grande domanda alla quale dobbiamo rispondere adesso», ha detto il premier italiano, «è se davvero vogliamo dare gli strumenti agli Stati membri per centrare gli obiettivi e le strategie che ci poniamo di fronte. E su tutte, la questione delle risorse è certamente la questione che va affrontata perché sappiamo che gli investimenti necessari per fare tutte le cose che vorremmo fare sono molti. E quindi questo è secondo me il vero dibattito». In una parola, bisogna fare debito comune. Ebbene, volete sapere com’è andata ieri? Nel criptico comunicato dei 27 è comparsa la frase «nuovi strumenti da esplorare» per per finanziare «le sfide della competitività» e «le priorità strategiche« dell'Ue (tra cui, non trascurabile, c’è anche quella della difesa). Già il termine «esplorare» fa pensare che nessun accordo è stato raggiunto. A darne la certezza è la stessa presidente Ursula von der Leyen, secondo cui i «nuovi strumenti» si limiterebbero ai due soli modi di finanziamento: le nuove «risorse proprie» per il bilancio comunitario (che sono sostanzialmente dei prelievi di tipo fiscale), oppure nuovi contributi aggiuntivi da parte degli Stati membri (ovvero risorse prelevate dai bilanci nazionali). Per non perdere completamente la faccia ha anche aggiunto che questi due modi «includono ovviamente che si raccolga capitale sui mercati». Ma per i frugali del Nord Europa e la Germania ciò significa che ognuno deve fare per sé.
Vuoi vedere che i sovranisti, Orban e Meloni sono diventati più europeisti dei paladini dell’Europa? Se Trump costringerà i veri nemici dell’Unione ad uscire allo scoperto avrà già fatto per il Vecchio Continente ben più di quanto si potesse sperare. E il bello, o il brutto per i super-rosiconi, è che il perno europeo dell’operazione verità sarà proprio la Meloni. Come ha detto ieri al Corriere della Sera Mario Monti, non proprio un simpatizzante, il presidente del Consiglio «ha capito l’Europa e i suoi problemi». Meloni, ha spiegato, «può complementare von der Leyen e deideologizzare gli argomenti a favore di un'Europa forte». Questa situazione, ha aggiunto l’ex premier, «rende ancora più evidenti i nostri problemi. Vedo un maggiore ruolo del nazionalismo degli Stati membri della Ue, questo nazionalismo piove anche dall'alto del Consiglio europeo e ha permeato la stessa Commissione». Analisi che, per una volta, non fa una grinza.
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