Campo sfatto

Liguria, la vendetta di Matteo Renzi affonda il Pd

Elisa Calessi

Un palazzo in mezzo al deserto. O quasi. Questa era l’immagine che, ieri sera, girava dalle parti del Pd per raccontare il paradosso ligure. Quello, cioè, di una elezione che, dopo un testa a testa durato tutto il giorno, ha consegnato al Pd un risultato di lista persino oltre le aspettative, oltre il 27%, regalandogli il podio del primo partito in termini assoluti. Un successo che, però, non è bastato a far vincere il suo candidato, Andrea Orlando. Otto punti sopra il risultato ottenuto cinque anni fa (19,8%) e tre punti sopra il risultato ottenuto alle Europee (24%). E con 14 punti di distacco (sopra) rispetto al partito della premier, Fratelli d’Italia. La partita, però, si è chiusa con una vittoria degli altri. Il crollo del M5S a circa il 5% e il bassissimo risultato della lista di centro, senza Italia Viva, (poco più dell’1%), ha inchiodato il campo largo, qui alla prova senza i renziani, a una corsa che per una manciata di voto non ha tagliato il traguardo.

Elly Schlein ha atteso i risultati a Roma, al Nazareno. Al comitato elettorale di Andrea Orlando, a Genova, non si è visto nessun dirigente nazionale, con l’eccezione di Claudio Mancini, plenipotenziario di Roberto Gualtieri, espressione della corrente di sinistra (Bettini, Ricci e, appunto, Orlando). Una giornata di luci e ombre per i dem che se da un lato premia il Pd, dall’altra riapre i problemi del campo largo. Non ci sono due gambe e nemmeno tre. C’è un Pd che va benissimo, ma con alleati che non decollano. La riflessione che si faceva, a sera, dalle parti dei dem, ruotava attorno a questi due nodi: il calo del M5S, su cui certamente ha pesato lo scontro Grillo-Conte, e l'inconsistenza di una presenza centrista. Due problemi che saranno materia di riflessione per i prossimi mesi. Sia per la costruzione di un’alleanza nazionale, in vista delle elezioni politiche, sia per le prossime due scadenze elettorali che ci saranno da qui a Natale: le elezioni in Emilia Romagna e in Umbria.

 

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Nel lungo pomeriggio e nell’estenuante serata di ieri, nessun dirigente si è azzardato a dare giudizi o a proporre riflessioni generali. Ma è evidente che il problema, da domani, è quel campo largo che, qui a Genova, ha dimostrato di avere più di un problema. Il Pd avrebbe tutto da festeggiare, avendo quasi raddoppiato il consenso rispetto a cinque anni fa, sia pure solo in termini percentuali (in valori assoluti, in realtà, non si è discostato molto dai numeri della scorsa elezione). Ma è una soddisfazione che lascia l’amaro in bocca, se non finisce con la vittoria di Orlando. E dire che a Genova il centrosinistra è andato molto bene, superando Marco Bucci, sindaco della città. Ma il problema è il resto della Liguria. Soprattutto nell’entroterra e in alcune province: a Imperia, ma anche a Savona, che pure è governata da un sindaco di centrosinistra.

Chi non piangeva, ieri, era Matteo Renzi, che Giuseppe Conte ha preteso non facesse parte dell’alleanza. Non ci avete voluto? Ecco il risultato. Sarebbe finita allo stesso modo se Italia Viva avesse fatto parte dell’alleanza? Difficile dirlo. Ma in una elezione giocata su una manciata di voti, anche pochi voti diventano decisivi. Renzi ha twittato: «Ha perso soprattutto chi concepisce la politica come scontro personale (...) Ha perso chi mette veti. Ha perso ch vuole solo escludere e odiare (...) Solo le mie preferenze alle Europee sarebbero bastate a cambiare l’esito della sfida, solo quelle». Schlein non ha commentato fino a quando non sono arrivati i risultati finali. Certo è che il test ligure ha riproposto la contraddizione che sta vivendo il suo Pd: in crescita, ma incapace di creare attorno a sé un'alleanza capace di essere alternativa al centrodestra. Soprattutto ha messo a fuoco i due grandi problemi che, da qui in poi, la segretaria dem ha davanti a sé: il crollo del M5S (ormai un fattore destinato a stabilizzarsi) e l’assenza di un’area di centro, in grado di intercettare quei voti che il Pd “alla Schlein” non vuole o non può intercettare. Come ha ammesso Roberto Morassut a sera, «al di là di Renzi serve un consolidamento della parte moderata della coalizione». E poi, certo, «hanno pesato anche le vicende interne al Movimento 5 Stelle, con uno scontro che trova il suo epicentro a Genova». È confermata la «chiara leadership del Partito Democratico», il timone è in mano ai dem. Ma resta da capire per andare dove. E con chi.