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Giorgia Meloni in Libano il giorno dopo la morte di Sinwar: l'obiettivo della missione

Andrea Morigi
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Con un volo diretto da Bruxelles ad Aqaba e poi a Beirut, oggi Giorgia Meloni lancia il segnale più tangibile dell’impegno dell’Italia, dell’Europa e del G7 per riportare in equilibrio il Medio Oriente, scosso dal conflitto scatenato da Israele contro il terrorismo islamico. Ieri sera, a proposito della morte di Sinwar, Meloni si è detta convinta che «ora debba iniziare una nuova fase: tutti gli ostaggi siano rilasciati, si proclami un immediato cessate il fuoco e si avvii la ricostruzione a Gaza».

L’agenda del presidente del Consiglio è un distillato di realismo politico. Il primo interlocutore, alle 12.30 è re Abdallah II di Giordania, a cui il governo intende ribadire il suo sostegno in quanto la considera una «Nazione che costituisce un elemento fondamentale per la stabilità della regione», dato che Amman «è un interlocutore prezioso e sta svolgendo un ruolo cruciale sia per ridurre la tensione sia per scongiurare un ulteriore peggioramento del quadro».

Al centro dei colloqui ci sarà, in particolare, la situazione umanitaria a Gaza, nella quale la Giordania svolge un ruolo decisivo per la consegna degli aiuti alla popolazione civile. Inoltre, i due affronteranno il tema della proposta giordana di «Gaza humanitarian Gateway» per far fronte alla crisi nella Striscia, su cui hanno già avuto un primo confronto a Cipro durante il Vertice Med9. La seconda tappa, alle 16.30, prevede un colloquio con il premier libanese Najib Mikati, musulmano sunnita e, un’ora più tardi, con Nabih Berri, eletto ininterrottamente presidente del Parlamento libanese dal 1990. Se c’è un elemento di stabilità, nel Paese dei Cedri, è proprio quest’ultimo, leader degli sciiti di Amal, la milizia che potrebbe trarre il beneficio più diretto dalla sconfitta militare e politica di Hezbollah.

 

In realtà, festeggerebbero un po’ tutti, se il Partito di Dio scomparisse. Per primi i cristiani, ai quali spetta per consuetudine la carica di presidente della Repubblica. Solo che non riescono a mettersi d’accordo su un candidato gradito a tutte le comunità, cattolici maroniti, chiese e confessioni armene, ortodosse e siriache. Dopo la guerra civile terminata nel 1989, si sono divisi. Samir Geagea, attualmente leader delle Forze Libanesi, conservatrici e di destra, il partito cristiano più rappresentativo, è l’erede del movimento di Bashir Gemayel. Geagea era finito in un carcere siriano per undici anni, detenuto in condizioni disumante, ma senza cedere fino alla liberazione avvenuta nel 2005. È l’unico ad aver pagato per i crimini commessi durante il periodo della guerra civile, ma è anche l’unica personalità politica senza legami con la Russia o l’Iran. Attualmente è all’opposizione, ma negli ultimi giorni ha fatto capire che non escluderebbe una propria candidatura come capo dello Stato.

 

Le fazioni avversarie mettono in campo altri esponenti dei clan storici maroniti, come Gebran Bassil, ex ministro degli Esteri e deputato della Corrente patriottica libera, di centro-destra, conservatore, ma più scettico nei confronti dell'Occidente che della Russia e noto per i suoi legami con i Paesi sovranisti dell’Europa orientale, come l’Ungheria. In realtà, il suo vero sponsor è suo suocero, l’ex presidente della Repubblica Michel Aoun, che ha stretto un patto di ferro con Hezbollah per mantenere il potere e garantisce relazioni strette con il sedicente Asse della Resistenza, cioè con la Repubblica Islamica dell’Iran. Fra le alternative, si situa Suleiman Frangjeh, leader dei filosiriani di Marada, ma considerato totalmente infeudato a Hezbollah e alla Siria di Bashar Assad. E si dovranno fare i conti anche con i drusi di Walid Joumblatt e i sunniti di Saad Hariri.

Intanto, in Occidente, si pensa piuttosto di puntare su Joseph Aoun, dal 2017 comandante delle Forze armate libanesi, per formare una giunta tecnocratico-militare escludendo in blocco i partiti per applicare le risoluzioni 1559 del 2004 e la 1701 del 2006 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e far retrocedere Hezbollah, senz’armi, dietro il fiume Litani. Sarebbe una garanzia di sicurezza anche per i militari impegnati nella missione Unifil, che a quel punto potrebbe anche ritirarsi.

Una soluzione alla quale Meloni, primo leader a visitare il Libano dall’inizio delle operazioni di terra delle forze israeliane, può contribuire in prima persona, sebbene per motivi di sicurezza non sia stato giudicato prudente recarsi in visita al contingente italiano che partecipa all’Unifil. In Libano, riferiscono fonti diplomatiche, il presidente del Consiglio «ribadirà la volontà italiana di contribuire alla stabilizzazione del confine israelo-libanese e chiederà l’impegno di tutte le forze libanesi a garantire in ogni momento la sicurezza del personale di Uni fil», come già chiesto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nella conversazione telefonica di domenica scorsa.

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