Fare le valigie
Enrico Letta, il retroscena: dietro la fuga a Madrid, la rottura con Elly Schlein
Anche a Madrid, dove ha deciso di fare dal mese prossimo l’insegnante universitario, come dieci anni fa a Parigi, rinunciando al mandato parlamentare in Italia, Enrico Letta chiederà probabilmente di non essere considerato “esule”. Ma in entrambe le circostanze egli ha dato l’impressione, a torto o a ragione, di aver voluto fuggire da qualcosa, o da qualcuno, o insieme dall’una e dall’altro.
Nel 2014 Letta jr, per non confonderlo con lo zio Gianni, anziano e ancora attivo come consigliere, ambasciatore, fiduciario dei figli di Silvio Berlusconi, come era stato col padre, andò a smaltire a Parigi la delusione, a dir poco, procuratagli da Matteo Renzi. Che come nuovo segretario del Pd gli aveva detto sotto Natale del 2013 di “stare sereno” a Palazzo Chigi, dove era approdato il 28 aprile di quello stesso anno, ma nel giro di qualche settimana gli procurò un clamoroso sfratto sostituendolo di persona. E cumulando baldanzosamente le massime cariche di partito e di governo.
Cosa che non aveva portato fortuna nella cosiddetta prima Repubblica a esponenti democristiani pur di un certo temperamento come Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita. E non portò fortuna neppure a lui, che pur nel giro di quasi tre anni dovette rinunciare ad una delle due, quella di governo. Per perdere rapidamente anche l’altra.
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IL PRECEDENTE
Enrico Letta ci rimase naturalmente male quando fu allontanato da Palazzo Chigi con un voto quasi unanime della direzione del Pd. E non fece nulla per nasconderlo. Anzi, ostentò la sua rabbia - chiamiamola pure col suo nome - in una cerimonia di frettoloso, infastidito passaggio della campanella d’argento del Consiglio dei Ministri al suo sgradito successore. Del quale poi si scoprì, grazie ad una intercettazione telefonica sfuggita al segreto istruttorio, che aveva parlato con un generale della Guardia di Finanza come di una persona non adatta alla guida di un governo. Pur adatto invece - pensate un po’- al lavoro di presidente della Repubblica, non disponibile però perché appena riassegnato a Giorgio Napolitano.
Voi capite, amici miei, quali e quanto buone ragioni poteva avere avuto Enrico Letta per andarsene da Montecitorio e dall’Italia dieci anni fa. E tornare a Roma in modo stabile solo quando andarono a supplicarlo a Parigi per assumere la segreteria del Pd improvvisamente lasciata da Nicola Zingaretti, troppo assediato dalle correnti.
Quale buona ragione abbia potuto avere anche questa volta Enrico Letta per cercarsi e trovare un lavoro all’estero più gratificante di quello a Montecitorio, pur rimanendo in Europa, la sua Europa, non è difficile immaginare.
Il Pd da lui lasciato ad Elly Schlein l’anno scorso fra baci, abbracci, incoraggiamenti e quant’altro, dopo un congresso risolto in un modo dagli iscritti e in un altro dai non iscritti partecipanti alle primarie, ha preso una strada non diversa ma opposta a quella percorsa da Enrico Letta. Che non perdonò, per esempio, a Giuseppe Conte di avere fatto cadere, peraltro pochi mesi prima della conclusione ordinaria della legislatura, il governo di Mario Draghi, nella cui “agenda” al Nazareno si riconoscevano un po’ tutti, persino Goffredo Bettini. Il quale è ancora fra i consiglieri e gli amici del presidente pentastellato, da lui promosso al “punto di riferimento più alto dei progressisti” in Italia.
VICOLO CIECO
Ora invece il Pd di Elly Schlein insegue Conte sulla strada pur fantomatica di un “campo largo” dell’alternativa al centrodestra che il presidente delle 5 Stelle ha appena liquidato come una invenzione giornalistica. E dal quale si è tirato indietro, non solo nella Liguria dove si voterà a fine mese, ma anche nell’Emilia-Romagna e nell’Umbria dove si voterà il mese prossimo.
La Schlein, sbiancata secondo una cronaca di Repubblica, spera forse di rianimare un morto. Ma, per quanto credente e praticante, credo, più della segretaria del Pd, Enrico Letta dubita, quanto meno, dei miracoli in politica. E preferisce andare a pregare, oltre che a lavorare, a Madrid. Buon viaggio, presidente.