Lo strano caso Gazzoni

Pd, progressisti e democratici invocano la censura per i libri che esprimono idee a loro sgradite

Giovanni Sallusti

Il Pd, anche in questo caso, deve decidersi. O quantomeno, accettare quell’anticaglia reazionaria nota come principio di non contraddizione: o il governo non deve intervenire nella vita culturale del Paese (pena lo stigma precotto del fascismo), o deve attivarsi per ripristinare le idee corrette, quelle che hanno cittadinanza nel dibattito. Come è noto, i progressisti escono da quest’alternativa secca, e dalla logica formale, con uno stratagemma dall’aroma orwelliano: alcune idee sono più corrette delle altre, e sono sempre le nostre.

S’inserisce in questa ipocrisia sinistra strutturale anche il cosiddetto affaire-Gazzoni, dal cognome di Francesco, 82enne luminare della scienza giuridica nostrana, emerito di Diritto Privato e Diritto Civile a La Sapienza, Cavaliere di Grazia Magistrale e Avvocato di Stato presso l’Ordine dei Cavalieri di Malta a Roma.

 

 

Non esattamente l’ultimo avventore dell’osteria sovranista sotto casa. Epperò, succede che Il Fatto Quotidiano sollevi l’ultimo polverone estivo a proposito del suo Manuale di Diritto Privato, peraltro giunto alla 21esima edizione, testo di riferimento per più di una generazione di studenti. Lo scandalo è custodito nelle ben 1.704 pagine dell’opera, ma nulla sfugge ai segugi travagliati, che hanno reperito le poche frasi incriminate.

Trattasi di giudizi sulla categoria dei magistrati che oscillano dal politicamente scorretto allo scarsamente difendibile, ma che esprimono convincimenti dell’autore, en passant accademico di chiara fama. Si va dall’annotazione per cui i magistrati «appartengono in maggioranza al genere femminile, che giudica non di rado in modo eccellente, ma è in equilibrio molto instabile nei giudizi in materia di famiglia e di figli» alla constatazione fattuale che «progrediscono nelle funzioni e nello stipendio in base all’anzianità e non al merito, onde sono premiati anche magistrati che si sono resi colpevoli, per negligenza, come nel caso Tortora», fino all’affondo secondo cui «non di rado appartengono alla categoria degli psicolabili», il che giustifica l’idea di «sottoporli a visita psichiatrica, come a suo tempo proposto dal Sen. Cossiga».

Concetti indigesti, ribaltamenti provocatori del mainstream manettaro, miscuglio di storture oggettive ed eccessi soggettivi? Pensatela come volete, ma appunto siamo nell’ambito del pensiero, siamo in presenza di costrutti intellettuali, non di atti eversivi. Non per i nostri eroi democratici: il gruppo del Pd alla Camera ha presentato sul dossier scottante (nel senso di agostano) un’interrogazione alla ministra dell’Università Anna Maria Bernini. L’interrogazione, promossa dalla responsabile Giustizia del partito Debora Serracchiani, è sostanzialmente un invito esplicito alla censura. Ovvero: il giovedì mattina si chiede al governo di fare quel che gli si rimproverava in altri ambiti (Rai su tutti) il mercoledì sera.

Si legge nel documento: «Fermo restando il principio indiscutibile della autonomia all’interno dell’università anche nella adozione dei testi» (che è la premessa di rito per infiocinare proprio quel “principio indiscutibile”), «si pone oggettivamente una questione di opportunità». “Oggettivamente” qui è da intendersi: con l’oggettività di due dogmi politicamente corretti. L’iper-suscettibilità di genere e l’intangibilità sovra-umana del magistrato. Quelle di Gazzoni sarebbero infatti «parole che manifestano teorie palesemente sessiste e che presentano un evidente pregiudizio di fondo verso i magistrati».

Morale della compagnia moralista: si domanda al ministro Bernini «quali iniziative intenda assumere in merito all’impiego del testo in questione per evitare che simili tesi così distanti dai principi costituzionali possano costituire bagaglio formativo per le prossime generazioni di giuristi». Si chiede, al netto dei fronzoli burocratesi, che il Ministero dell’Università si trasformi in una versione contemporanea del MinCulPop. Oppure, per dirla con un precedente più famigliare ai firmatari, in un Politburo accademico che rastrelli le idee sgradite e le bandisca dagli atenei.

La postilla ironica è che a invocare tutto ciò sia Debora Serracchiani. La quale recentemente si struggeva per «la cappa di regime che sta calando sulla libertà di espressione del pensiero», a proposito del martirio immaginario di Antonio Scurati. Mentre qualche anno fa strillava, a proposito di un Primo Maggio in Rai contestato: «La libertà di espressione non si calpesta e nemmeno s’indirizza, l’episodio denunciato da Fedez va chiarito a fondo!». In sintesi: la libertà intellettuale dell’autore di M. e del rapper Federico Leonardo Lucia conta, quella del luminare Gazzoni no. Sono le nuove vette del doppiopesismo piddino.